Ai numerosi emigranti che seguono questo blog raccomando di leggere questo post sino in fondo
Quest' opera in terracotta, raffigurante persone che, in procinto di emigrare in cerca di lavoro, salutano affrante i parenti, è stata ideata dall’artista veronese Maria Manzini ( con me nella foto)
E’ una scena che indubbiamente a Santomenna, paese di emigranti per antonomasia, si è ripetuta cento, mille volte e che ha visto come protagonisti numerosi conterranei che, sin dagli albori dell’autonomia comunale, si mossero dal loro luogo di origine per trovare lavoro, studiare e ottenere, altrove, soddisfazioni personali e familiari: tra questi i giovani non ancora ventenni che ebbero il coraggio di andare ad esplorare il mondo oltre alle montagne di Calabritto.
A
ridosso delle festività di luglio, un evento che riunisce
idealmente i sammennesi del mondo, Santomenna ringrazia i suoi figli
costretti a realizzare il proprio destino “in giro per il mondo”
e che hanno comunque conservato nel cuore l’amore per il loro
paesello. Anche grazie al loro
sacrificio, dopo gli anni sessanta, in Italia raggiungemmo un
progresso economico inaspettato.
Un
giusto omaggio ai tanti emigranti che, con particolare entusiasmo,
hanno richiesto il mio libro ed hanno inviato il loro contributo e,
soprattutto, al sacrificio cui sono andati incontro.
Quest'anno
non sono riuscito a realizzare l’idea di affiancare
all’inaugurazione della targa un Convegno sull’emigrazione. Il
mio auspicio è che in futuro qualcuno si adoperi per istituire anche
una festa dell’emigrante: è giusto che le future generazioni
non dimentichino.
In
mancanza del Convegno intendo comunque proporre alla lettura dei
frequentatori blog www.santomenna.blogspot.com il
capitolo che il mio libro ha voluto dedicare all’argomento.
Oltre
ad alcuni dati, numerose testimonianze dirette molto toccanti: tra
queste quelle di Felice Venutolo, Alfonso Figurelli, Mario e Michele
Di Martino, Maria Calabrese, Luigi Salvatore (1) e Rocco Di Martino
oltre ad alcune storie tra cui quelle di Frank Carlucci e Peter Toby
Fegorello.
(1)
sul libro più volte indicato, erroneamente, con il nome di Luigi
Piserchia
Grazie
all’interessamento diretto del Sindaco Massimiliano Voza, la targa
è stata collocata su una parete della Casa municipale “sotto a la
Chiesa”, zona molto cara ai sammennesi.
Oltre
al Sindaco e don Peppino Zarra voglio ringraziare ancora una volta il
Comitato ( Filomena Calabrese, Annamaria Di Gianni, Michele Di
Geronimo e Davide Calabrese) che, con pazienza, mi ha sostenuto e
assieme a me ha accettato il rischio di esporsi alle critiche.
Grazie
a tutti i titolari delle attività produttive locali ed in modo
particolare ai responsabli della Opus et Vita, all' impresa edile Di
Geronimo, alla C.M.C. e alla Rotostampa di Lioni che, assieme al
Comune di Santomenna, hanno coperto buona parte delle spese di
stampa del libro.
L'aiuto
di tante altre persone (molte residenti all'estero o comunque fuori
Santomenna) ci ha consentito di raccogliere i fondi necessari a
realizzare questa targa e provvedere al restauro della statua di
S.Menna che sarà pronta a novembre.
La
mia soddisfazione e quella del Comitato è di aver mantenuto fede
all'impegno iniziale: abbiamo utilizzato del nostro tempo per "dare"
qualcosa alla nostra comunità.
Sono
rimaste ancora alcune copie del libro che potrebbero essere riservate
ad una ulteriore raccolta di fondi per dotare il nostro piccolo paese
di un defibrillatore: uno strumento salvavita di estrema importanza.
E' auspicabile che qualche gruppo di giovani residenti si attivi
in questo senso e dia anche la disponibilità ad imparare l'uso del
defibrillatore.
Santomenna,
29 giugno 2014
Andrea
Salandra
L'emigrazione italiana nel Novecento
Andare oggi a ricercare le radici del nostro
paese significa raccogliere, prima di tutto, le testimonianze degli emigranti:
un doveroso omaggio al loro sacrificio e a chi, lasciando la famiglia e gli
affetti, ha cercato altrove il riscatto di una vita di miserie e privazioni e
che, più di ogni altro, ritengo, sia depositario delle memorie più genuine e
meno inquinate.
Prima di lasciar
spazio alle esperienze dirette di alcuni emigranti, vorrei ripercorrere
brevemente i momenti salienti del movimento migratorio dall’Italia.
Possiamo suddividere il fenomeno
dell’emigrazione in quattro fasi:
dal 1900 alla prima
guerra mondiale;
tra le due guerre;
dal dopoguerra agli
anni ‘60/’70.
Nel nostro Sud il
fenomeno migratorio fu più sostenuto che altrove, per le asperità del
territorio, per il brigantaggio,
ed anche per i meccanismi della successione.
Come è noto i beni
erano per lo più riservati al figlio maggiore e, nella quasi totalità dei casi,
ai maschi e solo i grossi latifondisti aprivano le eredità alle femmine.
Fu la legislazione del
Codice Civile piemontese ad imporre due possibilità: egualitarismo integrale o
divisibilità dell’asse ereditario in due parti uguali (“quota legittima”, da
ripartire tra tutti i figli, e “quota disponibile”, alla discrezione del
proprietario).
Nonostante un maggior
principio di equità e tutti i disperati tentativi della popolazione contadina
(matrimoni tra consanguinei, uso della “quota disponibile”), per evitare le
conseguenze della nuova legge, ne risultò un ulteriore frazionamento delle
proprietà in microfondi, spesso insufficienti alla stessa sopravvivenza.
Anche a Santomenna la
suddivisione in piccole proprietà accentuò lo stato di miseria e l’alternativa
alla “fame”, dunque, fu costituita dall’emigrazione. In questo contesto di
crisi economica, superate le resistenze personali e scelta la destinazione, il
problema più grave, per l’aspirante emigrante, rimaneva reperire i fondi
necessari a pagare un biglietto ed a finanziare il primo periodo di soggiorno
all’estero. La soluzione più comune era la cessione del microfondo di proprietà
o in alternativa, degli attrezzi o del bestiame. Non mancarono, anche a
Santomenna, i casi di ricorso all’usura, con tassi d’interesse assolutamente
esosi. Nel caso di famiglia numerosa era l’intera comunità familiare a
selezionare i figli più adatti al lavoro all’estero, più spesso toccava al solo
capofamiglia attraversare l’Atlantico o il Pacifico per prendere il controllo
della situazione, prima di richiamare a sé la moglie ed eventuali figli.
Spesso, la donna che rimaneva, veniva affidata alle cure dei familiari del
marito che esercitavano un forte controllo sulle attività della sposa: molte
volte, però, adulteri, aborti e nascite illegittime mettevano a dura prova la
solidità della famiglia. Tuttavia, in molti casi, il rapporto tra i coniugi si
fece più stretto, visto che la moglie divenne la custode del bilancio
familiare, alimentato dalle rimesse. L’esperienza migratoria italiana si compì
sostanzialmente nei 100 anni compresi tra il 1876 (in effetti da quando si
incominciò a contarli) ed il 1976 (quando gli arrivi degli stranieri sono
diventati superiori alle partenze) e seguì, grossomodo, il seguente andamento.
La prima fase (1876-1900) fu caratterizzata da movimenti
totalmente spontanei, quando non clandestini: in questo quarto di secolo
dall’Italia più di cinquemilioni di persone, prevalentemente uomini (81%) di
età medio bassa e di provenienza per lo più contadina, raggiunsero inizialmente
le mete europee, all’inizio (Francia, Germania) e, successivamente, quelle
extraeuropee, in crescita a fine secolo (Argentina, Venezuela, Brasile, Stati
Uniti).
In questa prima fase,
e più precisamente nel 1892, partì anche il nonno del più famoso dei nostri
emigranti Frank Carlucci I.
La seconda fase (1901-1915), pur coincidendo con
la crescita dell’industrializzazione italiana, fu detta “grande emigrazione“,
proprio per l’incapacità del nostro sviluppo, non intenso né uniforme, di
assorbire la manodopera eccedente.
L’ emigrazione del
periodo fu largamente extraeuropea: il 45% degli emigranti (prevalentemente
meridionali) espatriò in America.
La terza fase (tra le due guerre) coincise con un
brusco calo delle partenze: vi contribuirono dapprima le restrizioni legislative
adottate da alcuni Stati (in particolare gli USA, con le “quote”) e in secondo
luogo, la tendenza statalista e dirigista scaturita, a partire dal 1921, in
seguito a conferenze internazionali (tenute a Roma) per disciplinare i flussi.
Non secondaria fu la politica fortemente restrittiva attuata dal fascismo per
motivi di prestigio (l’“immagine negativa” fornita dalle torme di partenti) e
di potenziamento bellico (trattenendo molte giovani leve da impiegare per scopi
militari); per ultimo si ricorda il peso della crisi economica degli anni ’20
(specie quella del ’29). L’ emigrazione, alimentata anche dai numerosi espatri
oltralpe degli oppositori politici del fascismo (specialmente comunisti), si
diresse soprattutto verso la Francia e verso la Germania negli anni ’30, in
particolare dopo la firma del “Patto d’Acciaio”.
Dal 1920 al 1940,
emigrarono poco più di tremilioni di persone, destinate a supplire alla
deficienza francese e tedesca di manodopera nazionale in agricoltura, edilizia,
industria.
Nella quarta e ultima fase (1945-1970 ca.) l’Italia è tornata
a fornire consistenti flussi, circa 7 milioni di espatri. I cambiamenti
politici ed economici del Paese, però, hanno alimentato un parallelo flusso
dalle campagne verso le città e le regioni (settentrionali) più
industrializzate. Prevalsero due destinazioni: extraeuropea (America Latina
-subito in calo per le continue crisi economiche e politiche- Australia,
Venezuela) ed europea (Francia, Svizzera, Germania).
Espatri dalle varie regioni 1876-1900 1901-1915
Piemonte
|
709.076
|
13,5
|
831.088
|
9,5
|
Lombardia
|
519.100
|
9,9
|
823.695
|
9,4
|
Veneto
|
940.711
|
17,9
|
882.082
|
10,1
|
Friuli V.G.
|
847.072
|
16,1
|
560.721
|
6,4
|
Liguria
|
117.941
|
2,2
|
105.215
|
1,2
|
Emilia
|
220.745
|
4,2
|
469.430
|
5,4
|
Toscana
|
290.111
|
5,5
|
473.045
|
5.4
|
Umbria
|
8.866
|
0,15
|
155.674
|
1,8
|
Marche
|
70.050
|
1,3
|
320.107
|
3,7
|
Lazio
|
15.830
|
0,3
|
189.225
|
2,2
|
Abruzzo
|
109.038
|
2,1
|
486.518
|
5,5
|
Molise
|
136.355
|
2,6
|
171.680
|
2,0
|
Campania
|
520.791
|
9,9
|
955.188
|
10,9
|
|
50.282
|
1,0
|
332.615
|
3,8
|
Basilicata
|
191.433
|
3,6
|
194.260
|
2,2
|
Calabria
|
275.926
|
5,2
|
603.105
|
6,9
|
|
226.449
|
4,3
|
1.126.513
|
12,8
|
-----
|
----
|
---
|
---
|
--
|
Totale espatri
|
5.257.911
|
100
|
8.769.749
|
100
|
Fonte: Rielaborazione
dati Istat in Gianfausto Rosoli, Un secolo di emigrazione italiana 1876-1976,Roma,
Cser, 1978.
Espatri dalle varie regioni 1916-1942 1946-1961
Piemonte
|
533.083
|
13,9
|
86.193
|
2,13
|
Lombardia
|
497.579
|
12,9
|
292.156
|
7,21
|
Veneto
|
392.157
|
10,2
|
611.438
|
15,09
|
Trentino
|
119.245
|
3,1
|
61.554
|
1,52
|
Friuli V.G.
|
378.631
|
9,8
|
276.101
|
6,81
|
Liguria
|
116.099
|
3,0
|
55.647
|
1,37
|
Emilia
|
188.955
|
4,9
|
222.099
|
5,48
|
Toscana
|
258.906
|
6,7
|
129.787
|
3,20
|
Umbria
|
43.341
|
1,1
|
41.078
|
1,01
|
Marche
|
114.378
|
3,0
|
104.691
|
2,58
|
Lazio
|
78.556
|
2,0
|
195.816
|
4,83
|
Abruzzo
|
157.342
|
4,1
|
308.365
|
7,61
|
Molise
|
62.621
|
1,6
|
151.638
|
3,74
|
Campania
|
319.496
|
8,3
|
495.591
|
12,23
|
|
155.632
|
4,0
|
385.721
|
9,52
|
Basilicata
|
67.203
|
1,7
|
110.322
|
2,72
|
Calabria
|
281.479
|
7,3
|
420.525
|
10,38
|
|
44.909
|
1,2
|
42.725
|
1,05
|
Sardegna
|
35.666
|
0,9
|
60.443
|
1,49
|
Totale
espatri
|
3.845.278
|
100
|
4.051.890
|
100
|
Principali paesi di emigrazione italiana 1876-1976
Francia
|
4.117.394
|
Stati Uniti
|
5.691.404
|
|
3.989.813
|
Argentina
|
2.969.402
|
Germania
|
2.452.587
|
Brasile
|
1.456.914
|
Belgio
|
535.031
|
Canada
|
650.358
|
Gran Bretagna
|
263.598
|
Australia
|
428.289
|
Altri
|
1.188.135
|
Venezuela
|
285.014
|
Totale Europa
|
12.546.558
|
Extra Europa
|
11.481.381
|
Si trattò di un
esodo che toccò tutte le regioni italiane e tra il 1876 e il 1900 interessò
prevalentemente le regioni settentrionali, con tre regioni che fornirono da
sole il 47 per cento dell'intero contingente migratorio: il Veneto (17,9 per
cento), il Friuli Venezia Giulia (16,1 per cento) e il Piemonte (12,5 per
cento).
Nei due decenni
successivi il primato migratorio passò alle regioni meridionali, con quasi tre
milioni di persone, emigrate dalla Calabria, Campania e Sicilia e quasi nove
milioni da tutta Italia. A partire dai primi anni ’70 l’Italia si trasforma,
quasi inavvertitamente, in paese d’immigrazione, ma i flussi in uscita non si
sono però interrotti del tutto. Quella che una volta era partenza di massa si
configura ora come fuga di cervelli, per i quali sono auspicabili, e obbligate,
adeguate politiche di rientro e reinserimento (Dacia Maraini, Corriere del 22 maggio 2012). Parliamo della nuova
emigrazione italiana, numerosa e così diversa dalla stereotipo dell’ignorante
con la valigia di cartone.
Nei fatti oggi escono
professionalità più elevate e talentuose sostituite in entrata attraverso
l’immigrazione di professionalità più modeste. Per dirla brutalmente e, senza
offesa per nessuno, cediamo ingegneri, biologi contro badanti e muratori e se i
migliori se ne vanno, ancora una volta, a cercare fortuna, significa proprio
che non siamo un paese per giovani ora, nel 2012, come nei secoli passati.
I cosiddetti “giovani
del web 2.0” o, più drammaticamente, “la generazione del 35%” (disoccupati)
sono costretti a ripercorrere la strada dei loro nonni: l’unica differenza è
che la valigia di cartone è stata sostituita dal trolley..
Per parlare
dell’emigrazione nelle Americhe, in quella del nord in particolare, ho
preferito rifarmi al percorso immaginario interattivo sulla migrazione che i
musei di Genova propongono attraverso internet e che si può eventualmente
approfondire visitando il loro sito.
Il percorso inizia da
una casa contadina di fine Ottocento: su un tavolo si aprono le ‘lettere di
chiamata ’ o “att’ d’ richiam”, le missive che i parenti già all’estero
inviavano ai familiari perché li raggiungessero. Queste lettere, con le
fotografie dei familiari, con le immagini dei “nuovi mondi”, con i dollari e i
biglietti di viaggio, talvolta prepagati, si aprono a magnificare le sorti
della “Merica” o comunque, la fuga dalla fame.
Una volta riuscito ad
ottenere passaporto e il biglietto di viaggio, l’aspirante emigrante si ritrova
a Napoli o, più spesso, a Genova e nei suoi vicoli, pronto per la partenza o
per la visita medica. Inizia proprio dalla stazione Principe (Genova era
ovviamente l’occasione per il primo viaggio in treno per chi proveniva dal
meridione) il percorso migratorio di 29 milioni di italiani dalla fine del 1800
ai primi del 1900. Il nostro emigrante, lo immaginiamo con la sua famiglia, con
i suoi bagagli fatti di fagotti e speranze, entra nella Genova ottocentesca, in
mezzo ai ‘’carrugi’’. Il centro storico, per lunghi decenni, tra l’Otto e il
Novecento, fu un teatro dove si agitava un’antica commedia: il viaggiatore,
l’emigrante, come l’ospite inopportuno, e che non si perdeva l’occasione di
dileggiare ma anche di sfruttare, come facevano gli albergatori, i medici, i
sensali di ogni tipo di traffico. La storia degli emigranti passa anche
attraverso i vettori che fornivano loro i biglietti per imbarcarsi.
Tra i genovesi i
maggiori furono i Fratelli Lavarello che, con la loro flotta, trasportarono
molti emigranti in America Latina. Nella zona di Salerno si ricorda invece
l’agenzia Barbirotti, ancora operante.
La nave all’ancora
chiama i passeggeri e gli emigranti entrano nella stazione marittima: verifica
(disinfezione) dei bagagli, dei passaporti, timbratura dei biglietti ed
imbarcano passando attraverso una passerella di legno.
Da un “camerone” con
le cuccette riservate agli uomini, si passa alla seconda classe, fornita di
cabine a quattro letti e, ancora, all’infermeria e alla cabina del commissario
di emigrazione che sorvegliava i passeggeri.
Non mancano le celle
dove venivano imprigionati i passeggeri più violenti, né il refettorio dove si
consumavano i pasti e la sezione femminile con i letti un po’ più grandi per le
mamme che avevano con sé i bambini.
Il viaggio da
emigrante nelle viscere della nave finisce con lo sbarco nelle tre destinazioni
principali dell’emigrazione italiana: l’Argentina negli anni tra il 1860 e il
1880, il Brasile tra il 1880 e il 1892 e gli Stati Uniti con Ellis Island.
Nord America: Ellis
Island,
il sogno de “La Merica”
Dalle grandi finestre
si vedono, sullo sfondo, New York e i grandi transatlantici italiani che per
decenni portarono gli emigranti: il Duilio e il Rex. Ecco le sbarre bianche che
dirigevano il flusso dei migranti, avviati al controllo sanitario e
psicologico. Appaiono i volti di tanti emigranti, un caleidoscopio di etnie e
di popoli, a ricordare che Ellis Island, “l’isola delle lacrime” appartiene a
tutto il mondo, e non solo agli italiani.
Un isolotto a circa un
miglio da Manhattan, per oltre sessant'anni (1892-1954) è stato la prima tappa
per milioni di immigrati che partivano dalle loro terre di origine verso gli
Stati Uniti. Il porto di Ellis Island ha accolto più di 12 milioni di aspiranti
cittadini statunitensi (prima della sua apertura altri 8 milioni transitarono
per il Castle Garden Immigration Depot di Manhattan), che, all'arrivo, dovevano
esibire i documenti di viaggio con le informazioni della nave che li aveva
portati a New York.
Medici
del Servizio Immigrazione controllavano rapidamente ciascun immigrante,
contrassegnando sulla schiena, con un gesso, quelli che dovevano essere
sottoposti ad un ulteriore esame per accertarne le condizioni di salute (ad
esempio: PG per donna incinta, K per ernia e X per problemi mentali).
Chi visita il museo di Ellis Island, può
affrontare i famigerati test di intelligenza che costarono cari a tanti nostri
nonni: il puzzle, il “Cubo di Knox”, le prove di lettura degli stampati
originali che fecero rientrare in patria molti analfabeti. Bastava poco per
essere ributtati indietro e gli emigranti avrebbero voluto morire piuttosto che
ritornare in Italia, dopo aver promesso che avrebbero avuto successo in
America. Chi superava questo primo esame, veniva poi accompagnato nella Sala
dei Registri, dove era atteso da ispettori che registravano nome, luogo di
nascita, stato civile, luogo di destinazione, disponibilità di denaro,
professione e precedenti penali. Alla fine riceveva il permesso di sbarcare e
veniva accompagnato al molo del traghetto per Manhattan.
I
"marchiati" venivano inviati in un'altra stanza per controlli più
approfonditi. Secondo il vademecum destinato ai nuovi venuti, "i vecchi, i
deformi, i ciechi, i sordomuti e tutti coloro che soffrono di malattie
contagiose, aberrazioni mentali e qualsiasi altra infermità sono
inesorabilmente esclusi dal suolo americano". Tuttavia risulta che solo il
due percento degli immigranti siano stati respinti. Per i ritenuti non idonei,
c'era l'immediato reimbarco sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati
Uniti, la quale, in base alla legislazione americana, aveva l'obbligo di
riportarli al porto di provenienza. Fu per la severità dei controlli che
l’isola venne chiamata l' "Isola delle lacrime".
Il picco di
immigrazione più alto si ebbe nel 1907 con 1.004.756 di persone approdate.
Tramite internet
si può accedere ad un sito che consente di cercare tracce di amici e parenti
che sono emigrati negli Stati Uniti tra il 1892 e il 1924, transitando per gli
uffici dell'immigrazione dell'omonima Ellis Island che, come abbiamo già detto,
era la principale porta di ingresso per chi cercava fortuna nel Nuovo Mondo.
Sotto il risultato della ricerca fatta solo
per alcuni cognomi.
In fianco è riportata l’anno di arrivo in USA
e l’età
Alfonsina
Ciliberti Santomenna 1922
61
Alfonso
Ciliberti Santomenna 1905
23
Francesco Ciliberti Santamanna 1893 23
Giuseppe
Ciliberti S. Menna 1893 -
Vicenzo
Ciliberti S. Menna 1902
30
Vita
Maria Ciliberti S. Minna
1893 30
Antonino
Di Geronimo S. Menna, 1907 40
Annamaria
Di Geronimo Santomenna 1924 32
Francesco
Di Geronimo Santomenna 1905 20
Francesco Di Geronimo Santomenna
1904 22
Giuseppe
Di Geronimo Santomenna 1905 24
Vito
Di Geronimo Santomenna 1905 22
Giacomo
Di Geronimo Salerno
1906 20 (mio
nonno)
Domenico Turi Santomenna 1904 23
Donato Turi
Santomenna 1906 21
Leonardo Turi
Santomenna 1902 31
Luigi Turi
Santomenna 1907 22
Antonio Piserchia Santomenna 1903 26
Pietro Piserchia Santomenna 1902 48
Fra
questi anche due Carlucci,
Giuseppe Carlucci Santomenna 1902 22
Nicola Carlucci Santomenna 1903 35
Francescopaolo Carlucci 1896 36
Francescopaolo Carlucci Matera (Salerno)1905 (evidente l’errore)
Cercando Salandra escono ben 50 persone.
Quelli riportati sotto sono quelli che hanno indicato come luogo di origine
Santomenna, o similari: non è escluso ve ne siano altri visto che non sempre la
località è stata indicata o trascritta in modo corretto, ovviamente per le
difficoltà di comprensione della lingua.
Andrea Salandra Santomenna 1903 19
Concetta Salandra Santamenna, 1920 18
Giuseppe Salandra Santamusne 1905 18
Giuseppe Salandra Santomenna,
Italy 1921 22
Giuseppe Salandra Santomenna,
Italy 1911
25
Giuseppe Salandra Santomenna,
Italy 1911 27
Vincenzo Salandra S.Menna,
Italy 1923 22
Vitantonio Salandra Santomenna,
Italy 1921 17
Vitantonio Salandra Santomenna,
Italy 1911 18
Vito Salandra
Santomjuna 1900 52
Si
noti come il nome del paese fosse riportato, spesso, in modi diversi
Sull’argomento una testimonianza, utile anche
all’introduzione del prossimo capitolo dedicato a Frank Carlucci III
Audio reg. n° 14
Il papà
di Luigi Di Nicola (Michele) partì per l’America nella prima ondata, pare il
1870, più o meno lo stesso periodo in cui partirono anche gli antenati di
Carlucci, che erano scalpellini.
Luigi
conferma di aver saputo, evidentemente dal padre, che una volta, a Santomenna,
c’erano bravissimi scalpellini: i più famosi appartenevano alla famiglia
Crocinini.
“Sesto nella linea di comando della potenza
più grande del mondo”
Frank Charles Carlucci III (nato a Scranton in
Pennsylvania il 18 ottobre 1930) è stato un diplomatico e uomo politico
statunitense. Carlucci ha ricoperto vari incarichi di governo nelle
amministrazioni repubblicane, tra il 1971 e il 1989. In particolare sotto
l'amministrazione di Ronald Reagan, ha svolto il ruolo di Segretario della
Difesa degli Stati Uniti dal novembre del 1987 al gennaio del 1989.
Nato in Pennsylvania
da una famiglia di origini sammennesi,
(il nonno Francesco Carlucci partì da Santomenna nel 1892) si laurea a
Princeton nel 1952 e negli anni 70 comincia la sua carriera politica.
Dopo un primo incarico
nell'amministrazione Nixon, ricopre il ruolo di Ambasciatore in Portogallo tra
il 1974 e il 1977. Fu in quell’occasione che il premier portoghese Mário
Soares, definì Carlucci "Un tipo piccolo, vivo. Un mafioso
tipico italiano!" (“Un tipo pequenino, vivo.
Un típico mafioso italiano!").
Nominato da Jimmy
Carter Vicedirettore della CIA, Carlucci ricopre questo incarico tra il 1978 e
il 1981, quindi è vicesegretario alla Difesa tra il 1981 e il 1983 ed entra nel
Gabinetto del Presidente Reagan nel 1986 come Consigliere per la Sicurezza
nazionale. L'anno seguente sostituisce il dimissionario Caspar Weinberger come
Segretario della Difesa e resta in carica per 14 mesi fino alla fine del
mandato di Reagan. Quale Segretario della Difesa degli Stati Uniti d'America,
Carlucci era anche il capo del Dipartimento della Difesa. Il Segretario di
Stato è il sesto nella linea di successione del Presidente. Conclusa l'attività
politica, dal 1992 al 2003, ha diretto la società di investimenti “Carlyle”.
Le origini sammennesi
di Frank Carlucci III sono documentate chiaramente da un articolo della
biografa Suzan Mazur
dal titolo “Frank Carlucci Principe Sublime”: l’articolo parla esclusivamente del
nonno sammennese del più famoso Segretario di Stato.
“La vita di Frank Carlucci I, inizialmente
sfuggita all’opinione pubblica, viene prepotentemente alla ribalta in quanto è
il nonno di uno dei cavalieri della scacchiera politica Frank Carlucci III –
del “Carlyle Group”. Carlucci I (nonno del più famoso F. Carlucci III) era un
uomo esuberante e ha lasciato una eredità, da capomastro, che merita
attenzione. Tra i suoi progetti più importanti ricordiamo la stazione di
approdo di Ellis Island nella baia di New York, la grande scalinata dell’
Arlington National Cemetery e il Willard Hotel di Washington DC.
Inoltre la sua vita
spiega alcune posizioni politiche del suo più illustre nipote. La sua
propensione per la segretezza nella confraternita massonica, ad esempio, per la
quale è stato premiato con la più alta onorificenza: "principe sublime del
segreto reale", era senza dubbio codificata in qualche parte del cromosoma
Y ed è passata a Frank Carlucci III, che ha servito come vice Direttore della
CIA, segretario della difesa e consigliere per la sicurezza nazionale, tra gli
altri incarichi di fiducia. La base del potere di Carlucci I era la sua
abilità: come scalpellino italiano di terza generazione era sicuro del suo
lavoro.
Era anche un uomo
straordinariamente bello, baffi a manubrio, come appare in una foto del 1897 “
É stato lo storico
Joseph H. Young che ha recuperato i documenti della contea di Lackawanna ed ha
accertato che Frank Carlucci era nato a “Santomenna”, Italia, in provincia di
Salerno il 7 aprile 1862 ed era il figlio di Carlo e di Grazia (Napoliello)
Carlucci e il nipote di Giovanni Angelo Carlucci.
“Frank iniziò a tagliare pietra a 14 anni in
Italia. E nel 1882, all'età di 20 anni, emigrò negli Stati Uniti con il
fratello Nick Carlucci. Erano in tutto nove figli e la famiglia si riunì a
Scranton dove vive ancora un certo numero di discendenti. Frank ha lavorato in
Scranton con un imprenditore edile tedesco di nome Conrad Schroeder, lasciando l'azienda
nel 1884 per formare una partnership per il taglio della pietra con il fratello
Nick – “Frank Carlucci & Brother “allora” F & N Carlucci”. Nel 1900, “F
& N Carlucci” si è fusa con Schroeder, riorganizzando come “The Stone
Company Carlucci.” [...] I cantieri Carlucci
sono stati convenientemente situati a Scranton vicino alla ferrovia Delaware,
Lackawanna & Western, il che ha permesso ai Carlucci il trasporto di pietre
in tutto il paese [...]
Carlucci I ha
collaborato con architetti come Lansing Holden, Fred Amsden, Ed Langley e altri
per costruire decine di punti di riferimento nel nord-est della Pennsylvania e
altrove, tra i quali: il tribunale di contea, un ufficio postale, cinque chiese
protestanti e il carcere di Lackawanna, il Coal Exchange Building (con
Schroeder), diversi alberghi e lo Scranton Republican Building (vedi foto a fianco).
Egli ha anche
costruito la sua casa in pietra a Clay Avenue e Poplar Street - un tempio greco
classico con colonne, dove viveva con la moglie svizzera, Louise Cerine e i
figli Frank Jr., Carl, Helen e Althea.
Carlucci ha mantenuto contatti con un pool di
artigiani nel Sud Italia, dove è cresciuto, alcuni dei quali ha portato a
Scranton dove ha iniziato una Scuola di Meccanica e Arti per formare
scalpellini. Carlucci I ha inoltre pubblicato anche l'unico giornale italiano
dell’epoca nel nord-est della Pennsylvania, “il Pensiero”, ha organizzato
numerosi club politici repubblicani e servito in vari consigli locali. Per
celebrare il 400 ° anniversario della scoperta dell’ America di Cristoforo
Colombo, Carlucci ha proposto di erigere un monumento a Colombo, nella Piazza
del Palazzo di Giustizia di Scranton.
Lo Scultore italiano
Albini Cottini disegnò il modello per Colombo e Carlucci lo ricavò da un blocco
di 9 piedi
di calcare massiccio. La statua si trova ancora nella piazza dove Carlucci ha
parlato all’inaugurazione avvenuta l’ 11 ottobre 1892.
Carlucci nel 1893 scolpì per la piazza anche
una statua di George Washington. Per le sue opere si avvalse di progettisti
talentuosi come Vincent Russoniello. Nel 1913 la vista di Carlucci cominciò a
peggiorare. In quel periodo ci fu anche un crollo finanziario e numerose banche
furono chiuse. Carlucci dovette lasciare l’attività connessa al taglio della
pietra e fu costretto a vendere la sua casa. Dal 1921 fino alla sua morte, un
decennio più tardi, operò nell’industria del carbone.
Suo figlio, Frank
Carlucci, Jr., avrebbe preso una strada più sicura come agente di
assicurazione.
Frank Carlucci morì il
4 Marzo 1931 all'età di 69, diversi mesi dopo la nascita del nipote e omonimo,
Frank Carlucci III.
Altre
storie d’America
Una bella storia anche quella dei Figurelli che, a quanto pare, oltre che
in Brasile (vedi testimonianza nell’apposito capitolo) sono emigrati anche in
America.
Ora, anche attraverso internet, i Figurelli
sono alla ricerca delle loro origini.
La storia di “Peter Toby Fegorello”
Il trisavolo era il fabbro Tobia Figurelli
(nato Santomenna nel 1830 e morto nel 1889) che sposò Maria Giuseppa Cuccaro .
Il figlio Pietro Figurelli (n. a Santomenna nel 1864) si trasferì a Jersey
City, USA dove morì nel 1929. Sposato con Gelsomina Fasano si trasferì in
America, dove lavorò nella compagnia elettrica di New Jersey.
“Il mio bisnonno, ancor prima di partire per
l’America, aveva avuto un figlio di nome Tobia Figurelli (nato in Santomenna il
5 Luglio 1897 e morto negli USA nel 1957). Tobia era arrivato negli USA nel
1903, prima del suo sesto compleanno. In America, dove fece il barbiere, gli
cambiarono il nome da Figurelli a "Fegorello".
In America, nel 1929,
nacque mio padre Peter Tobia Fegorello (morto nel 2003). Io, che sono nato nel
1959, sono alla ricerca delle mie radici ed anche per questo non vedo l’ora di
venire a conoscere Santomenna, assieme a mia moglie Josephine e mia figlia
Jacqueline”
Per certo aspetti analoga la storia di Geo Carlucci che, dopo essere stato a
Londra, ora vive ad Edimburgo (Scozia).
Sempre attraverso il web dice:
“Ho dei parenti emigrati negli Stati Uniti
agli inizi del 1900, quindi può essere che io sia anche correlato con il ramo
di Frank Carlucci.
Il mio nonno Pasquale e il bisnonno Francesco,
sono nati a Santomenna ed emigrarono sicuramente assieme negli USA.
La mia bisnonna, invece, era Voza.
Successivamente il mio nonno Pasquale ha
lasciato gli USA.
La presentazione del libro potrebbe essere per
me una buona occasione per
conoscere Santomenna e gli altri Carlucci: Edimburgo non è lontano”.
Il primo punto di
approdo era La Boca, fuori Buenos Aires, che è anche il quartiere dove si
insediarono i liguri nella prima metà dell’Ottocento. E la Boca si presentata
con i suoi colori vivaci perché le costruzioni, realizzate in legno dai liguri,
furono dipinte con la stessa pittura che i genovesi usavano per le loro navi e
le loro barche.
La
testimonianza di alcuni emigranti in Argentina
L’esperienza
e il contributo di Felice Venutolo
Felice
Venutolo
mi ha gentilmente inviato alcune riflessioni, da lui scritte, sulla sua
esperienza di emigrante in Argentina, sulla sua vita, la partecipazione alla
seconda guerra mondiale, oltre che alcuni ricordi legati “a Santomenna negli
anni cinquanta/sessanta”.
É una lunga e toccante testimonianza su
cui, mio malgrado e me ne scuso, ho dovuto apportare dei tagli (in particolare
negli aspetti della vita familiare che vanno oltre la finalità del libro) e
qualche aggiustamento, pur cercando di non travisare i contenuti.
Il racconto di Felice è preceduto da
un’amorevole prolusione dei figli.
Prologo
“Questo è il racconto di una storia di vita
semplice e profonda di un uomo che ha cercato sempre un suo luogo al mondo.
Nacque in Italia, ma la sua vita e le sue circostanze fecero che questo luogo
lo trovasse in Argentina, più precisamente a Lanús, provincia di Buenos Aires.
È scritto in prima
persona perché venne fatto da lui stesso, malgrado la sua formazione di
base fosse solo da scuola elementare. In essi vuole riflettere
l’instancabile ricerca per trovare le forze per vivere con speranza, dimostrare
e dimostrarsi che vale la pena vivere accettando le sfide, le questioni
incomprensibili e le crisi che si presentano. Ebbe il dolore di attraversare un
periodo atroce e senza senso com’è stata la Seconda Guerra Mondiale, durante la
quale l’Italia si imbarcò nella pazzia nazi-fascista senza misurare le sofferenze di tutto il suo popolo. Si
descrivono anche le vicende e la cultura della vita del suo paese, Santomenna
(Salerno) dove non c’era futuro né progresso per le persone che ci abitavano e
quello, sommato allo stato in cui l’Italia si trovava
dopo la Guerra, spinse migliaia di persone ad essere immigranti in molti paesi
che gli aprirono le loro porte. Uno di quelli fu l’Argentina, che ricevette
loro a braccia aperte perché lavorassero e superassero così i patimenti
passati. Questo era ciò che cercavano.
Possiamo trovare in
questo racconto le vere ragioni che li costrinsero ad essere immigranti per
abbandonare con dolore la loro terra natia, lasciando famiglia e amori,
entrando nella nostalgia per la terra che non sarebbe mai stata dimenticata.
Non c’è nei nostri genitori una singola azione eroica; l’eroismo c’è nella
lotta di ogni giorno per superarsi, per essere migliori, per dare a noi, i loro
tre figli, tutto ciò che loro non hanno potuto avere. Questo l’abbiamo sempre
capito come un grandissimo atto di amore.
Questa generazione
d’immigranti dovette far fronte ad una triste realtà: loro non ebbero una
propria terra. Quella che lasciarono non sentiva la loro mancanza e nella nuova
erano stranieri.
Il sacrificio fu
una compagnia inseparabile della loro vita. Non ne potevano godere
sufficientemente a causa di tante perdite. E di questa mancanza fecero virtù.
C’insegnarono che la costruzione di un mondo migliore richiede un sacrificio
personale. Ognuno ha il suo ruolo al mondo e costruisce la sua storia. Questo
compito non si delega. La cultura del lavoro è l’eredità importante che ci
trasmisero e così furono protagonisti nella costruzione del nostro paese.
Caro Papà, grazie
per il tuo sacrificio che, insieme con quello della Mamma, ci permisero di
essere persone perbene e ricevere un’educazione che non avete avuto. Malgrado
questa mancanza, sapeste scoprire i veri valori della vita, quelli che non
dipendono dalla moda o dallo svago. Foste voi sempre genitori onesti e
affettuosi. Ci formaste per tentare di costruire un mondo migliore. GRAZIE! “
Silvana, Emilio e Gerardo
La mia famiglia
Mio padre, Gerardo
Venutolo, ebbe otto figli. Fu un gran lavoratore, rispettoso e amabile. Partecipò
alla Prima Guerra Mondiale della quale parlava sempre: aveva sofferto molto,
anche per una bronchite cronica, che fu tra le cause della sua prematura
scomparsa, avvenuta a 56 anni. Ci ha lasciato tanti ricordi: rispettare e farsi
anche rispettare, non fare del male a nessuno. Quando si dà una parola, bisogna
mantenerla; quando non si può andare avanti, chiarire i motivi. Fece tanti
sacrifici per non farci mancare il necessario e, per grazia di Dio, ci riuscì.
Eravamo proprietari di terreni: si coltivava di tutto ma bisognava lavorare
sempre ed in qualsiasi epoca dell’anno. Anche mia mamma ereditò, dal nonno
Carmine, dei terreni agricoli. Il nonno Carmine era rimasto senza genitori a 16
anni, forse in conseguenza della “febbre Spagnola” che colpì tanta gente.
Nonostante ciò, con tanti sacrifici riuscì ad acquistare un buon patrimonio
grazie all’emigrazione in Brasile, dove si recò ben cinque volte.
La mia storia personale
“Finita la Seconda Guerra, eravamo ritornati tutti a casa
ma, poco tempo dopo, ognuno di noi ha cercato di prendere la strada
dell’indipendenza. Che cosa si poteva fare? Sposarsi oppure andarsene da
Santomenna. Scelsi la via più facile: ci sposammo in quattro, ma, ripeto, ciò
non fu molto favorevole all’economia familiare perché, da ricchi, siamo
diventati tutti più poveri, a causa delle spartizioni. Appena sposato la
felicità coniugale durò pochissimo. Mia moglie Anna contrasse una brutta
malattia pochi mesi dopo esserci sposati e morì nel dicembre del ’48. Dopo
tanto dolore, non sapevo che fare né dove andare, che strada prendere; spesso
andavo alla casa paterna ma non era più come prima, mi trattavano bene ma io mi
sentivo già fuori dalla famiglia. C’erano debiti da pagare ma non sapevo come
pagarli e dovevo andarmene. In quel momento a Santomenna non c’era lavoro,
avevo bisogno di uno stipendio per risolvere il problema economico, così mi è
venuta l’idea di emigrare in
una qualsiasi parte. Io ed altri tre di Santomenna abbiamo tentato di andare in
Francia, ma non ci siamo riusciti: appena varcata la frontiera siamo stati
presi dalla Polizia Francese e deportati in Italia, perché eravamo clandestini.
Così pensammo di emigrare in Argentina, però ci voleva un atto di chiamata. Mi
ricordai di un parente di nostra madre, Francesco Di Geronimo. Incominciai a
fare i documenti per il passaporto, ma questo non mi veniva spedito. A Salerno
mi dissero che c’era una denunzia per aver varcato la frontiera francese senza
permesso e dovevo fare una causa a Ventimiglia. Non era tanto facile, perché c’era bisogno di un avvocato e ciò comportava altre spese.
Fortunatamente mi fu consigliato un avvocato d’ufficio che seguì la pratica
senza chiedere nulla. Pochi giorni dopo il passaporto è arrivato e incominciai
a pensare ai soldi per pagare il viaggio in Argentina. Mi informarono che un
signore di Castelnuovo prestava soldi per viaggi all’estero, sono andato a
trovarlo e mi ha detto che lui mi prestava la somma solo se io avevo un
garante. Ho parlato con mio padre per sapere se lui poteva farlo e mi ha detto
di sì. In seguito, a mese a mese, mandavo dall’Argentina i soldi del viaggio. É
stato molto duro lasciare la famiglia e la piccola casa fatta con tanti
sacrifici.
Il primo agosto
1949, sono partito da Napoli con una nave da carico e passeggeri. La nave
toccava tutti i porti: Palermo, Tunisia, Isole Canarie, Rio de Janeiro, Santos,
Montevideo, Buenos Aires: dopo 32, quando sono sceso dalla nave, ho sentito l’
impulso di baciare la terra. Grazie a Dio ero arrivato salvo! “
Dal 2 settembre del 1949 in Argentina,
comincia un’altra vita
“Il giorno dopo
l’arrivo sono andato in Questura per sollecitare il documento di residenza
argentino. Dopo quattro giorni ho iniziato a lavorare: non era il lavoro che
volevo ma bisognava accontentarsi: dopo otto mesi avevo finito di pagare anche
il debito al signor Ricciulli di Castelnuovo che ebbe la pazienza di prorogarmi
la scadenza di due mesi. Però pensavo sempre di ritornare in Italia. Per farlo,
dovevo cercare un altro lavoro per guadagnare qualcosa di più.
Incominciai a
lavorare in una fabbrica di tessuti notte e giorno, questo mi permetteva di
guadagnare un 30 per cento in più. Poi tutto è cambiato quando ho deciso di
sposarmi: ero stanco di una vita da solo, in quel momento in Argentina non si
stava tanto male, in Italia e, più ancora a Santomenna, era difficile vivere
decorosamente. Così ho pensato ad una ragazza del mio paese che sapeva tutto
della mia storia. Ecco come è venuto il pensiero di scegliere proprio Vincenza
Salandra. Le ho fatto domandare dalla cognata Lina, insieme al fratello
Giuseppe, se lei aveva altri impegni e ha risposto che non ce li aveva. È
rimasta molto sorpresa dicendo “come
ha pensato proprio a me?”ma ha accettato la mia proposta e così ci siamo
messi in corrispondenza. Ho scritto al padre di Vincenza e lui è stato
d'accordo sulla mia richiesta così abbiamo continuato a scriverci per due anni.
Ci siamo sposati
per procura il giorno 5 gennaio 1954 ed ho cominciato a fare i documenti per
farla venire al più presto possibile. Nel frattempo era morto il mio caro papà:
fu un dolore per tutti, tanto più per me che ero lontano. Vincenza partì da
Napoli il 20 aprile 1954, con la nave di bandiera argentina “Buenos Aires”.
Vincenza è arrivata al porto di Buenos Aires il 7 maggio. Appena scesa dalla
nave, ci ha detto che si sentiva male, aveva passato il viaggio quasi
completamente a letto. Ma poi quando ha visto me, il mal di mare le passò come
d’incanto. Aveva trovato chi le voleva bene per tutta la vita. Siamo andati a
casa della sorella Maria per passare qualche giorno insieme, prima di unirci.
Ormai eravamo sposati, e ci siamo uniti il 10 maggio 1954, con le Santa
Benedizioni del Signore, nella città di Lanús Oeste, dove ero residente.
Dopo il tempo
necessario, Vincenza diede alla luce un bel maschietto a cui diedi il nome del
mio caro papà, Gerardo. La notte del 1° maggio 1956 nacque la bella e cara
Silvana. Vincenza aveva sempre l’idea di rivedere suo padre e le venne la
volontà di ritornare in Italia. I bambini intanto avevano incominciato ad
andare scuola. Con l’aiuto di Vincenza eravamo riusciti a mettere da parte una
buona somma di denaro e possedevamo una fiorente macelleria. Decidemmo di
ritornare in Italia quando Gerardo aveva nove anni e Silvana otto. Ho messo
perciò in vendita la chiave del negozio con tutto l’arredamento. In poco tempo
è stato venduto abbastanza bene. Quando tutto era pronto, abbiamo dovuto
aspettare fino al 22 agosto, partendo per l’Italia con la nave
"Augustus".
Eravamo ritornati
in Italia col pensiero di rimanerci definitivamente, ma non abbiamo trovato la
sicurezza in quel momento: la situazione politica confusa, sembrava che il
comunismo avanzasse, la necessità di spostarmi da Santomenna in città senza
conoscerne bene l’ambiente. Mi sono sentito molto solo nel decidere: mi sarebbe
stato necessario più tempo per capire se restare o meno.
Pensavo ai bambini
che dovevano andare a scuola e non volevo far loro perdere l'anno scolastico.
Erano passati già quattro mesi senza ancora decisioni solide, e c’erano anche
difficoltà perché, per poter ottenere un lavoro, si doveva avere una lettera di
raccomandazione, come abitudine dei piccoli paesi come il nostro. In Argentina,
bastava avere voglia di lavorare. Siccome il tempo passava senza esserci
sistemati, finalmente con Vincenza abbiamo deciso di ritornare in Argentina al
più presto possibile. C’era una partenza il
4 dicembre, nuovamente con la nave “Augustus”. Siamo arrivati a Buenos Aires il
22 dicembre dello stesso anno della partenza. Pur nell’amarezza del rientro, ci
siamo messi subito alla ricerca di un posto dove impiantare la macelleria e la
casa. Alla fine i nostri sforzi sono stati premiati e, dopo un anno, il negozio
è stato aperto.
Ormai l’Argentina è
la nostra seconda Patria, ed é anche la Patria dei miei, cioè dei nostri tre
cari figli, e dei nostri cinque cari nipotini: noi genitori e nonni abbiamo
imparato a rispettare e collaborare con questa seconda Patria in pace e
tranquillità. “
Vedi
anche il contributo che la storia di Felice Venutolo ha fornito ai cap.:
“La seconda guerra mondiale a Santomenna”
“La
Scuola di allora”
L’esperienza
e il contributo di Alfonso Figurelli
Video 29 e Audio reg. n° 16
Dopo un
periodo di infanzia comunque felice, Alfonso Figurelli partì per l’Argentina
nel 1956, all’età di 15 anni. Il papà, di ritorno dall’Argentina, dove era
andato già nel 1950, convinse la famiglia a seguirlo in quanto da solo non
sarebbe riuscito a vivere nel paese straniero. Dopo aver promesso che tutti i
componenti della famiglia avrebbe avuto un buon paio di scarpe, (il papà di
Alfonso era un buon calzolaio), riuscì a strappare alla giovane moglie la
promessa che tutta la famiglia l’avrebbe seguito in Sud America.
Il papà
rientrò nel ‘54 per preparare nel migliore dei modi l’arrivo della moglie e dei
cinque figli: Alfonso era l’unico maschio.
In quei
tempi difficili, anche l’Argentina, grazie all’accordo che aveva fatto con
l’Italia (secondo Alfonso il presidente Peron aveva studiato con Mussolini e
quindi aveva una grande stima degli italiani) favorì l’emigrazione degli
europei: il viaggio infatti fu completamente finanziato dal Governo Argentino.
Alfonso
è convinto che è grazie a questa politica, che gli emigranti giunti in
Argentina (e sono tantissimi) sono per il 60% di origine italiani, mentre solo
il 27% è costituito da spagnoli infine c’è una buona rappresentanza di
polacchi.
Le
pratiche di espatrio e di viaggio di Alfonso, che allora venivano gestite
dall’Agenzia Barbirotti di Salerno, subirono qualche ritardo a causa di una
forte nevicata che non permise a sua madre di recarsi a Salerno.
Il
desiderio e l’ansia di partire preoccupavano il giovane Alfonso, al punto che
un giorno, stando sotto le finestre dell’Ufficio Postale, sentì i battiti del
telegrafo e pensò che un telegramma gli sarebbe arrivato, di lì a poco, a
negargli la partenza. Mai sensazione fu più veritiera: il telegramma annunciava
che, a causa di un guasto alla nave, la partenza era rinviata.
Le capaci casse di colore azzurro-verdastro
erano state ormai riempite di tutto ciò che poteva essere trasportato (corredo,
ecc) e la casa della famiglia di Alfonso era ormai vuota e pronta per essere
chiusa: perciò per una quindicina di giorni la numerosa famiglia fu, suo
malgrado, costretta ad accettare l’ospitalità dalla zia Peppinella e della
figlia Luisa Voza.
Indimenticabile per Alfonso “il giro” del paese che ha
dovuto fare la sera prima di partire: un rito. A questo punto Alfonso
nell’intervista tradisce un pizzico di commozione in quanto, nonostante avesse
sempre aspettato e desiderato quella partenza, l’abbraccio del cugino
Giacomino, il saluto, in cui tutta la piccola comunità veniva coinvolta, gli
crearono emozioni ancora vive nei suoi ricordi. C’era chi invidiava Alfonso e
lo considerava fortunato per la bella opportunità e non gli mancarono anche le
raccomandazioni di don Michele Figurelli, dal quale la famiglia era andata per
ottenere una specie di benestare/approvazione e che responsabilizzarono molto Alfonso.
A lui, non ancora quindicenne, l’avvocato Figurelli raccomandò di badare alle
sorelle e di preservarle dai pericoli che lo stesso don Michele immaginava
allora ci potessero essere nella remota Argentina.
Finalmente
a Napoli, dove su una nave da cui avevano da poco scaricato mucche argentine
(evidentemente anche quelle erano previste nell’accordo italo-argentino),
Alfonso venne invitato a sistemare la sua branda in un grosso locale destinato
ai soli uomini: lui avrebbe preferito dormire assieme alle donne, non per
malizia, ma solo per rimanere accanto alla mamma e alle sorelle: era la prima
volta, forse, che gli capitava di doversene separare.
Prima di
proseguire il racconto del viaggio di Alfonso, vale la pena ricordare che anche
l’Argentina come il Venezuela, adottando però un sistema sicuramente meno
traumatizzante degli Stati Uniti, che avevano escogitato la “quarantena” ad
Ellis Island, si premuravano di accogliere solamente gente sana. Infatti
Alfonso e la sua famiglia, prima della partenza, dovettero recarsi a Genova
(per quei tempi non era proprio dietro l’angolo) per sottoporsi ad una rigorosa
visita medica.
“La
Merica”, nonostante quelle camerate maleodoranti, era comunque dietro l’angolo:
di lì a poco ad Alfonso vennero offerti dei ricchi e abbondanti piatti di
carne: Alfonso ne mangiò così tanta che per tutti i dieci giorni successivi fu
costretto a rinunciare a quel ben di Dio, in quanto, complice anche il mare
molto mosso, stette malissimo.
Diciassette
giorni durò il viaggio prima di arrivare a Buenos Aires (a Porto Madera non
lontano dalla Boca) e dopo aver toccato nell’ordine: Genova, Las Palmas, Santos
e Montevideo.
Il primo
impatto non fu affatto sorprendente! Al di là delle montagne di Calabritto
anche Alfonso aveva sognato ed immaginato un mondo infinitamente diverso:
rimase perciò alquanto deluso nel vedere che anche in Argentina c’erano i
passeri e gli alberi come a Santomenna.
Il
timore di cosa potesse riservare questo nuovo mondo gli si ripresentò però poco
dopo quando, nei cieli bassi di Buenos Aires, intravide e sentì un “aereo che
parlava”: presto gli fu spiegato che quell’aereo era lì per fare propaganda.
Non
furono facili i primi tempi: pur molto intraprendente e curioso, tanto da
spostarsi subito e da solo da Lanusi alla vicina capitale Buenos Aires, quando
utilizzava i mezzi di trasporto, Alfonso scrutava sempre tutti alla ricerca di
qualche viso conosciuto, magari di qualche amico che aveva appena lasciato a
Santomenna: gli amici di bottega del “compare Attilio” gli mancavano proprio
tanto!
Anche
Alfonso era arrivato a Lanusi, un grosso centro industriale non lontano dalla
capitale Buenos Aires, dove, come io stesso ho potuto constatare, c’è una
grossa comunità di Sammennesi.
Ciò è
dovuto al fatto che, ancora negli anni trenta, un gruppo di Sammennesi era
arrivato in quel centro: fra questi, un certo Vincenzo che ebbe l’idea di
predisporre una vecchia ma grossa casa di legno (Alfonso ricorda di averne
visto tantissime allora!) in cui “l’amico paesano” forniva un tetto, la prima accoglienza:
il più delle volte era proprio lui a fare da garante e firmare l’atto di
richiamo tanto ambito in quei tempi nel nostro piccolo paese. Alfonso aveva
sedici anni quando, in Argentina, incominciò ad allargare le sue amicizie,
iniziò a frequentare una scuola per tecno-meccanici e, poco a poco non ricercò
più, nei visi dei passeggeri dei vecchi bus, le facce conosciute a Santomenna.
Video 30
Alfonso,
dopo venti anni, ormai realizzato (una moglie italiana, una bella famiglia ed
un avviato laboratorio per fare camicie) nel 1975 è ritornato la prima volta a
Santomenna. Da allora è venuto sempre più spesso: ultimamente, essendo in
pensione, rientra quasi annualmente.
Non si è
mai pentito della scelta fatta, ma in lui c’è sempre il desiderio di ritornare
per rivedere i “suoi” paesaggi, la “sua” gente umile ma generosa che, ogni
qualvolta rientra, lo riempie di tutti quei prodotti agricoli a cui sa che
Alfonso è legato (vino, sopressata, olio, verdura, salsa di pomodori, ecc.).
Come
tutti quelli che ne hanno avuto l’opportunità, ha cercato di mantenere le
tradizioni sammennesi, che ha voluto trasmettere anche ai propri figli, anche
in Argentina: l’orto, l’allevamento delle galline e dei colombi (li palumm’),
la cucina.
Con
Alfonso concludiamo questa intervista parlando della sorella che ha voluto
chiudere ogni rapporto con Santomenna dove aveva vissuto un’infanzia difficile
anche se, nonostante la presunta indifferenza, sul suo porta chiavi è riportata
una bell’ immagine della Madonna delle Grazie.
L’esperienza e il contributo di Mario e
Michele Di Martino
Video 33
Mario Di
Martino ricorda di essere partito da Santomenna il 24 giugno 1957, quando ormai
tutto era pronto per celebrare le feste di luglio. Non aveva alcuna voglia di
partire e lasciare Santomenna proprio nel momento in cui incominciava a godere
del calore degli amici. “In effetti”, dice Mario, “mi sentii “espulsato” in
quanto mio padre insisteva che io partissi perché aveva paura mi coinvolgessero
nella guerra dei sei giorni sul Canale di Suez. Quando fui chiamato da Pulista
Cuculo, che aveva curato la pratica, fu peggio che ricevere una coltellata”.
Il 27, a
Napoli, salì su una nave da cui avevano appena scaricato del grano: era il
compenso per l’Italia che aveva firmato un accordo in base al quale in
Argentina veniva inviata “forza lavoro” con viaggio pagato.
Sulla
nave, Mario ha compiuto i 18 anni e, durante il viaggio, pianse per 15 giorni.
Viaggiò assieme ad altre seicento persone fra questi due paesani: i fratelli “r
pappascion’” che rientrarono in Italia poco dopo.
In
Argentina Mario trovò i fratelli Giuseppe e Michele che avevano avuto l’atto di
richiamo dai loro zii. Mario non spezzò la “catena migratoria” e chiamò il
fratello Angelomaria. Tutta la famiglia (tranne Giuseppina che sposò Vito) si
ricostituì in Argentina dove presto giunsero anche gli anziani genitori e la
più giovane della famiglia, che è Maria.
All’arrivo,
anche Mario venne ospitato da una zia. Per i primi due/tre anni fece il
calzolaio. Appena risolse i problemi di lingua decise di mettersi in proprio:
lavorava molto con le scarpe ortopediche (benedetto il compare Attilio di cui
Mario conserva un caro ricordo assieme a tutti i numerosi amici che allora con
lui frequentavano la bottega). Aveva trovato il lavoro che gli dava soddisfazione
e di Santomenna, a parte gli affetti, gli angoli che lo avevano visto bambino,
non aveva, ormai, alcun rimpianto.
Quando
chiedo a Mario quali pietanze gli sono mancate, non ha dubbi, anche in
Argentina ha tentato di mangiare la minestra con i fiori e le tenere foglie
delle piante di zucca (li taggrhucc’), ma non avevano il sapore di quelle di
Santomenna e poi la minestra (di verdure ovviamente) con la “pandella” di
agnello, difficile riproporla in quanto nell’imbottitura bisogna mettere solo ed
esclusivamente pecorino di Santomenna. Anche le “freselle” di una volta sono un
bel ricordo, assieme a tutti i salami e, in modo particolare, la “supr’ssata”.
Anche
Mario conferma che buona parte dei sammennesi sono arrivati a Lanusi.
Video 36
Michele
Di Martino (la Perchia) adesso ha 79 anni. Chiamato dal fratello Giuseppe
raggiunse l’Argentina nel 1951, all’età di 17 anni. Anche Michele, dopo la
consueta visita a Genova, partì da Napoli con una piccola nave (la Castelverde)
che, durante il viaggio, risentì molto delle avverse condizioni del mare.
Nel
periodo in cui è stato in Argentina, di Santomenna gli è mancato il posto, gli
angoli, gli alberi della sua infanzia: insomma il paese natio, ciò che solo chi
emigra apprezza di più (“si apprezzano le cose quando ti mancano”). Tutto il
resto (lavoro, ecc.) l’ha trovato in Argentina.
L’esperienza e il contributo di Maria
Calabrese
Video 37
Nel
luglio del 49, a soli 23 anni (oggi Maria ha 86 anni essendo nata nel 1926) e
con un bambino di due anni, partì per l’Argentina assieme al fratello Gaetano
(che dopo un paio di anni passò in Venezuela) e al cognato Mario, per
raggiungere il marito Francesco Iannuzzi, emigrato un anno prima.
Il costo
del suo viaggio non rientrò, come per altri, negli accordi italo-argentini,
quindi dovette affrontarlo con soldi in prestito, regolarmente restituiti,
grazie anche alle rimesse che il marito già inviava dall’America.
Partì da
Genova dove, qualche mese prima, aveva passato la visita medica che superò
brillantemente nonostante la paura per il riacutizzarsi di un mal di fegato,
dovuto evidentemente allo stress.
Fu un
viaggio di ventiquattro giorni durante il quale, per paura delle sue coliche
epatiche, scambiava regolarmente la sua razione con quella destinata al piccolo
Vito, il quale si sacrificava volentieri per un cibo più sostanzioso. Durante
l’attraversamento dello stretto di Gibilterra la nave subì dei forti scossoni
tanto da far rovesciare improvvisamente tutto ciò che era apparecchiato sui
tavoli e costringere tutti i passeggeri ad indossare il giubbotto di emergenza.
La paura fu veramente tanta.
All’arrivo
in Argentina, oltre al marito, trovò i nostri comuni zii, Vito e Succorsa, e
tanti altri amici desiderosi di conoscere questa “muchacha” italiana.
In
Argentina, dove Maria rimase per sei anni, faceva la sarta ed aiutava nella
macelleria gestita anche da alcuni miei parenti. Nella macelleria, in
particolare, Maria curava il piccolo reparto frutta.
Le
particolari condizioni climatiche, del tutto simili all’Italia, consentirono a
Maria di conservare le tradizioni culinarie sammennesi: minestra, cavatelli,
carne e patate, ecc. Qualche volta la sua mamma (zia Filomena) le inviava una
latta sigillata contenente salsicce nell’olio (penso che le attuali norme
sanitarie non lo consentano più).
In quel
periodo non ebbe alcun rimpianto, a parte la lontananza dalla mamma, di aver
lasciato Santomenna: aveva trovato tanto lavoro!
Nota
autore: ricordo
che diverse generazioni di Salandra hanno gestito macellerie a Santomenna oltre
che a Castelnuovo. Diversamente che a Santomenna, dove l’ultimo dei Salandra a
gestire una macelleria è stato mio papà Pasquale, in Buenos Aires, grazie a
qualche mio cugino, la tradizione prosegue.
Questa emigrazione, meno conosciuta di quella
statunitense e argentina, si impose tra gli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento
grazie alle forme di emigrazione assistita da parte dello stato federale di San
Paolo che, attraverso l’immigrazione – in particolare quella italiana –
intendeva risolvere il problema rappresentato dalla defezione degli schiavi
afro-brasiliani a seguito dell’abolizione dello schiavismo.
Gli italiani, giunti in massa con le loro
famiglie, furono avviati al difficile lavoro dei caffezais, in cui conobbero
forme molto dure di sfruttamento. Con il tempo, molti si emanciparono dalle
nuove schiavitù dei fazendeiros e si iscrissero ai “nuclei colonial” con i
quali si intendeva porre a reddito larghe estensioni di macchia e di bosco non coltivati.
Una parte di questi coloni, successivamente, passò in città (e in particolare a
San Paolo) dove contribuirono fortemente alla industrializzazione e alla
nascita della metropoli.
In Brasile l’accoglienza e gli Uffici di
collocamento che si occupavano degli immigrati a S.Paolo e Santos erano peggio
organizzati a quelli degli Stati Uniti, soprattutto l’aspetto igienico
sanitario in queste “Hospedarias” lasciava a desiderare: erano piene
all’inverosimile e scoppiavano epidemie di ogni genere. Nella baia di Rio la
febbre gialla, il vaiolo e la peste decimarono gli immigrati, tanto che nel
solo 1890 vi morirono 428 minori. (Rapporto
consolare di C. Bertola, 1892)
Le
testimonianze:
Due foto inviate da Angelo Giuseppe Figurelli,
che mi ha contattato attraverso internet.
- Nella prima, del 1885, appaiono Francesco
Figurelli, la moglie Maria, sua suocera e i loro figli: Celina(16-07-1881) e
Alcida(06-08-1884)).
- L’albero genealogico di Angelo Giuseppe
Figurelli
- La foto di Angelo Giuseppe Figurelli
Video
26
Aurelio
Quaranta è nato nel 1945: figlio di Lorenzo e Maria Araimo e nipote di zia
Vitella, una delle prime a gestire, a Santomenna, un negozio di alimentari e
diversi.
Il nonno
Aurelio, dopo aver combattuto nella prima e seconda guerra mondiale, emigrò in
Brasile assieme a suo fratello Vincenzo, per raggiungere il papà (Aurelio,
bisnonno dell’intervistato) che li aveva preceduti nei primi anni trenta.
Nel ‘50,
a soli 5 anni, Aurelio partì per il Brasile. A Napoli, accompagnato da tutti i
familiari, prese una nave che “liberava tanto fumo nero”.
Dopo un
mese di viaggio arrivò a Santos, dove venne accolto dallo zio Alfonso Quaranta,
che gestiva un avviato negozio di scarpe ortopediche.
Mentre
il papà Lorenzo lavorava nel trasporto pubblico, Aurelio frequentò le prime
classi di scuole brasiliane. Le difficoltà linguistiche iniziali furono
superate ben presto: non sapeva il piccolo Aurelio che le stesse difficoltà
dovette riaffrontarle a Santomenna dove tornò dopo tre/quattro anni.
L’emigrazione in Venezuela è relativamente più
recente rispetto a quella negli altri paesi del Sudamerica e fu piuttosto
consistente nei primi anni cinquanta.
Alla fine della Seconda guerra mondiale e
l'inizio degli anni settanta, pare siano immigrati in Venezuela oltre 250.000
italiani. Tale corrente migratoria, che raggiunse le sue punte più alte negli
anni 1949 – 1960, successivamente diminuì drasticamente, per convertirsi in un
fenomeno assolutamente marginale nei decenni successivi.
In questo periodo, a parte gli emigranti in
cerca di lavoro, ci furono anche parecchi nostalgici “fascisti” che andarono là
per cercare di esportare la loro ideologia, in ciò illusi dai regimi militari o
pseudo tali che allora vigevano in Sud America.
Quando Marcos Pérez Jiménez, appartenente alla
giunta militare, ascese al potere nel 1948 concentrò nelle sue mani tutti i
poteri divenendo dittatore e, convinto che l'immigrazione europea potesse
essere determinante per lo sviluppo del Paese, la favorì in ogni modo. Permise
l'ingresso di circa un milione di stranieri (tra di essi circa 300 mila
italiani, che attualmente costituiscono la seconda più importante comunità
straniera dopo quella spagnola).
A parte
questa considerazione, credo che i sammennesi siano emigrati in Venezuela
soprattutto attratti dalla sua capacità economica, infatti fino al 1980 gli
artigiani italiani che arrivavano avevano altissime possibilità di trasformarsi
nel breve termine in ricchi imprenditori.
Questi "emigranti di successo", non
tutti ovviamente, tornavano spesso in l’Italia in vacanza per rivedere il loro
paese o motivati dalla necessità di acquisire beni che in Venezuela non
trovavano.
Tra i molti sammennesi che si sono distinti
per il loro successo ricordo i fratelli Di Geronimo che a Santomenna hanno
dedicato quattro condomini/torri di trentasei piani, posti agli angoli di una
strada centrale della capitale venezuelana.
Come sempre gli emigranti, nostalgici del
proprio paese, hanno costituito delle vere e proprie comunità italiane in cui
condividere tradizioni e valori.
In Venezuela, come in Argentina, vi sono
alcune sezioni della Società Dante Alighieri, presso cui i figli dei nostri
emigranti hanno frequentato corsi d'italiano. Profondamente legati alla nostra
cultura, spesso hanno fatto frequentare scuole italiane ai loro figli tra
queste il prestigioso liceo “Agostin Codazio”.
A Caracas c’è anche un Centro italo
venezuelano, sorto nel ’62, per unire tutti gli italiani che decidevano di
comprare le azioni e, come presidente, ha avuto anche due persone molto
conosciute a Santomenna: Alfredo Buffardi e Pasquale Di Geronimo. Per affermare
la loro italianità molti automobilisti fregiano la targa della loro macchina
con la bandiera italiana e molte persone indossano la maglietta della nazionale
di calcio.
Vedi testimonianza Audio reg. n° 3
In queste due ultime decadi il flusso
migratorio si è interrotto anche perché, se prima dello scatenarsi della crisi
politico-economica che ultimamente interessa anche quel Paese, la comunità
italiana in Venezuela poteva essere definita fiorente, stabile, organizzata,
ultimamente si assiste al fenomeno di rientro in Italia, dove agli emigranti
viene riconosciuto un minimo di pensione: questa situazione ha interessato
anche molti italo-argentini.
In una recente intervista Laura Buffardi, che
ora vive a Santomenna, riferisce:
“Agli emigranti di Santomenna mancava molto
l’Italia. Sotto certo aspetti si sentono più italiani quelli che stanno fuori
che non quelli che sono in Italia. Risentono molto della mancanza dei loro
affetti oltre che delle loro abitudini, mangiavamo sempre a mezzogiorno e
conservavamo gelosamente le ricette di Santomenna. La mamma mi faceva sempre
“Li cauzunciegrh’” e qualche volte doveva mediare con le abitudini alimentari,
marcatamente napoletane, del marito. “
Anch’io ricordo di aver mangiato in Venezuela,
a casa di Emilia Chiara (moglie di Pasquale Carbutti), un ragù che negli odori
e nei sapori mi ricordava quello che una volta (anni sessanta) facevano a
Santomenna e il cui profumo si spandeva lungo le strade.
Lungo potrebbe essere l’elenco dei sammennesi
che hanno dato un buon contributo alla crescita del Venezuela.
Mi si perdoni se ricordo per primo mio zio
Francesco Di Geronimo e i fratelli Michele e Vincenzo Ciliberti, poi i fratelli
Manziano, tra cui Vito, quindi Zambella, i Cucolo, i Chiara e tanti altri
ancora.
Significativa è la testimonianza audio di
Luigi Piserchia (lu furnar’) che nella sua lunga intervista mi ha raccontato la
sua esperienza di emigrato.
L’esperienza e il contributo di Luigi
Piserchia
Video 18
Luigi è
partito da Napoli l'11 agosto del ‘58 all'età di 20 anni. Dopo una navigazione
di 16 gg. arrivò a Caracas e quindi a Barquisimeto, ovviamente dopo essersi sottoposto ad
un'accuratissima visita, tre mesi prima a Roma, da parte di una Commissione
medica.
Luigi
partì grazie ad un accordo che l'Italia aveva fatto con il Venezuela. Il
Generale che allora comandava in Venezuela voleva a tutti i costi favorire
l'emigrazione di europei ed italiani, in particolare.
Video 19
Luigi
che da giovanissimo aveva seguito un corso per parrucchieri a Campagna
(insolito per quei tempi), era ormai un bravo parrucchiere e lavorava
principalmente sulle donne in procinto di partire: sì, evidentemente
erano proprie tante (nota autore).
Sebbene a Santomenna avesse incominciato qualche lavoretto, partì per il
Venezuela con grande spirito di avventura e animato da tanta curiosità.
Aveva
scelto il Venezuela anche per ricongiungersi al papà che era partito nel ‘50 e
al fratello Gerardo partito nel ‘52. Successivamente Luigi fu raggiunto dal
fratello Pasquale (altro
esempio di catena migratoria).
Non ebbe
particolari difficoltà nel trovare lavoro in quanto aveva un buon mestiere che
e allora costituiva un privilegio.
Luigi
era contento perché il suo sogno stava per realizzarsi. Viaggiò con la M.n.
Irpinia dopo aver avuto la possibilità di vedere suo fratello Pasquale che, da
Casale Monferrato dov'era militare, si era sobbarcato un lungo viaggio a Genova
per poterlo salutare.
A
Barquisimeto trovò tanti altri italiani e riuscì ad aprire e gestire un bel
Salone da parrucchiere per uomo e donna.
Il primo
rientro Luigi, che è rimasto sammennese nel cuore ma riconoscente al Venezuela
per quello che gli ha dato, l'ha fatto nel ‘68: dopo 10 anni. Senza rimpianti,
tornò in Venezuela volentieri pur rimanendo legato a Santomenna che ultimamente
ha trovato molto migliorato e, anche per questo motivo, quasi ogni anno ritorna.
Video 21
Luigi
Piserchia parla degli italiani che sono stati in Venezuela, dove tutti hanno
progredito e si sono fatti onore nel loro piccolo.
Ci sono
state delle eccellenze fra i costruttori, ma non tutti potevano permettersi di
fare questo mestiere.
Forte è
il legame rimasto con l'Italia da parte di tutti e ora anche dagli emigranti di seconda
generazione.
Video 42
Nel 1956
Antonio Piserchia si trasferì in Venezuela dove ha fatto lavori diversi.
All’arrivo,
come tanti altri Sammennesi, era ospite di una baracca messa a disposizione da
Vito Di Geronimo (in località “al Marchese” zona Boleita) dove, tra gli altri,
si trovavano Andrea Carbutti e Francesco la Corva.
Si
lavorava alla giornata trovando il lavoro con il “voce passa voce” (passaparola).
Alla
domenica si trovavano a Boleita: zona d’incontro dei sammennesi che volevano
giocare a bocce e/o a carte.
Dopo 8
anni di Venezuela e 19/20 anni in Canada, il cittadino del mondo è finito a
Bologna.
“Per
certi aspetti sono stato più tranquillo all’estero che non a Bologna:
diversamente da quelli che sono arrivati oggi in Italia, noi abbiamo saputo
fare l’emigrante. Eravamo consapevoli di essere ospiti.”
Il
viaggio non fu sovvenzionato dal Venezuela così lo dovette pagare. Il viaggio,
che durò 9 giorni, con la nave “Castelverde” della Costa e un mare in tempesta,
fu fatto assieme a Michelino “lu segator’” che, avendo già fatto il primo
rientro in Italia, nel ritorno gli fu di grande aiuto.
Gli appassionati di Alberto Sordi ricordano di
sicuro, la sua interpretazione, a fianco della giovane e bella Claudia
Cardinale, in "Bello, Onesto, emigrato in Australia Sposerebbe Compaesana
Illibata". Era il 1971 e, allora, il movimento migratorio stava ormai
perdendo di forza e di intensità. Tuttavia, una pellicola simile ben testimonia
un fenomeno che tanto aveva colpito l'immaginario nazionale: se infatti non si
possono paragonare ai milioni di nostri connazionali che varcarono l'Oceano per
cercare fortuna nelle Americhe, anche gli italiani che, tra il secondo
dopoguerra e la prima metà degli anni Settanta, decisero di imbarcarsi alla
volta dell'Australia non furono pochi: pare oltre 360 mila.
Secondo il Professor O'Connor, (Docente di
Italiano alla Flinders University di Adelaide) se volessimo fare una stima di
quanti sono oggi gli Italo-Australiani, tra vecchi emigrati e loro discendenti,
possiamo dire che, quantitativamente, fra gli Stati australiani, il Sud Australia
conta la terza più vasta comunità di Italiani dopo il Victoria e il New South
Wales. Il censimento australiano del 2001 segnala la presenza in Australia di
218.000 nati in Italia, di cui 25.000 residenti nel Sud Australia. Se si
includono gli italiani di seconda e terza generazione, attualmente in Sud
Australia il gruppo etnico italiano costituisce circa il 5% della popolazione.
Ma, nei quartieri a nord est del centro di Adelaide, circa il 20% degli
abitanti è di origine italiana: al primo posto i Campani e i Calabresi, che
insieme costituiscono il 50% degli emigrati nati in Italia.
Il
prof. O’Connor, afferma che il governo australiano, intenzionato a popolare
l'Australia tramite un programma che prevedeva di far entrare nel Paese fino a
200mila immigrati "bianchi" all'anno, non riuscendo a far affluire
sufficienti cittadini britannici, avviò un programma di immigrazione diretto
all'Italia.
Il Messaggero di Roma del 2 ottobre 1950
riportò un'intervista concessa al giornalista Gino De Sanctis dall'allora
Ministro per l'Immigrazione, Harold Holt, il quale volle a tutti i costi far
capire agli Italiani che la nuova Australia "non aveva pregiudizi
razziali" e che gli Australiani non chiamavano più gli immigrati Italiani
"dago" (maledetti stranieri).
La realtà, però, era molto diversa. Appena
firmato l'accordo, nel 1951, tra l'Italia e l'Australia, fu dato l'ordine ai
dipendenti del Dipartimento per l'Immigrazione australiana – incaricati di
selezionare in Italia gli Italiani più idonei – di escludere i meridionali,
giudicati troppo scuri di pelle. Per fortuna questo provvedimento ministeriale
rimase in vigore solo per pochi anni.
Oggi moltissimi sono gli italiani, anche
meridionali, che sono imprenditori o occupano posti di responsabilità in
magistratura e ci sono scrittori che hanno dato un grosso contributo allo
sviluppo della cultura e del giornalismo australiano.
Anche da Santomenna l’emigrazione verso
l’Australia si verificò prevalentemente negli anni cinquanta e sessanta e io
stesso fui tentato, appena diplomato, di raggiungere mia sorella Concetta.
Fra i
sammennesi in Australia, in buona parte residenti ad Adelaide o a Melbourne,
ricordo i fratelli Salandra (Nicola, Salvatore, ecc.); “li Aviglianes’” e la
famiglia dei “Cap’tunn’”, la famiglia Mollica (Ang’lon’) oltre a mia sorella
Concetta e a mia cugina Concetta Turi.
(con particolare riferimento alla Svizzera e al Belgio)
Dagli anni ’50 le mete
transoceaniche furono meno ambite, anche perché i guadagni medi di un immigrato
in Europa erano superiori dal 35% al 50 % rispetto a quelli possibili in
Italia. Ciò permetteva il ritorno in patria dopo pochi anni, spesso con
risparmi sufficienti a costruirsi una casa (negli anni sessanta/ settanta a
Santomenna c’era un brulicare di piccoli cantieri) o ad aprire una attività
commerciale e/o imprenditoriale che, in molti casi, ancora oggi prosegue.
All’interno di questi
flussi di popolazione, l’emigrazione italiana e sammennese ebbe tra le proprie
mete principali: la Francia, la Germania, la Svizzera ed il Belgio.
Si trattò di una
emigrazione a carattere “temporaneo o stagionale” e, a causa della vicinanza di
questi paesi e della stagionalità, i migranti lasciavano le loro famiglie in
Italia.
Accettati soltanto
come Gastarbeiter (lavoratori ospiti) i lavoratori non venivano incoraggiati a
stabilirsi in modo permanente: il loro impiego era temporaneo e ai loro figli
non veniva garantita l’istruzione scolastica.
Ma, nonostante ciò, è
risaputo che molti migranti sammennesi sono rimasti in queste nazioni per anni
e i loro figli sono ormai del tutto integrati.
Non mi è stato
difficile raccogliere testimonianze sull’emigrazione in Svizzera. Santomenna
negli anni sessanta ha contribuito notevolmente ad incrementare la forza lavoro
in Svizzera, paese che costituiva il miraggio, il sogno per tanti giovani.
Lascio a loro raccontare questo paese a molti rimasto ancora nel cuore.
L'emigrazione in Svizzera ha contribuito
notevolmente ad aiutare l'economia povera di Santomenna. Grazie alle rimesse,
ai soldi frutto dei lori sacrifici, i nostri emigranti incominciarono a
sistemare e, a volte, a comperare la casa a Santomenna.
Le loro testimonianze
Audio reg. n° 8
Intervista
ad Angelomaria Piserchia (r z’nnarul’) nato del 1930
Ha un
ricordo lucido del suo vagare in Europa: dall’Inghilterra (uno dei pochi nostri
emigranti nel Regno Unito) alla Svizzera, a Berna, dove venne inviato tramite
l’Ufficio Provinciale del Lavoro. Questa era una prassi non inconsueta, a
testimonianza delle richieste di manodopera all’Italia che allora, come adesso,
non riusciva a garantire occupazione ai propri giovani.
Video
4
Michele
Calabrese da tutti conosciuto come “M’chelin’ r sarachella”. Nato nei primi
anni quaranta, a 18 anni è emigrato in Svizzera. Un carissimo cugino che io ho
sempre considerato come fratello maggiore: quando ero in difficoltà trovavo
sempre in lui difesa e sostegno. A lui chiedevo aiuto quando avevo difficoltà a
gestire e governare le bestie (pecore e vitelli) che mio padre mi affidava in
attesa di poter essere macellati. “La prima volta che andai in Svizzera, dice
Michelino, ebbi la fortuna di arrivare nel Canton Ticino dove si parlava
l’italiano. Anch’io, alla prima uscita con un contratto da contadino, fui
impegnato come boscaiolo. Il contratto era stagionale, al mio primo rientro in
Italia sono dovuto partire militare per Milano. Dopo la prima esperienza in
Svizzera ho lavorato anche in una fabbrica di birra a Lucerna dove ho avuto
qualche difficoltà con la lingua. In Svizzera stavo volentieri soprattutto
perché a fine mese arrivava lo stipendio. Dopo dodici anni in Svizzera (sino a
trent’anni) rientrai e con ciò che ero riuscito a mettere da parte iniziai una
piccola attività in proprio con un camioncino (Tigrotto) e riuscii anche a
comprare una casa”.
Video 6
Nel
1960, a venti anni, Peppino emigrò in Svizzera. Incominciò a lavorare in una
vetreria. Assieme a lui altri giovanotti: Pasquale Carbutti, Gerardo Carbutti e
Gerardo De Cillis. Nella vicina Lucerna c’erano anche Antonio ed Andrea
Calabrese assieme ad Umbertino Voza che lavoravano in una fabbrica di birra.
Nei
primi mesi che soggiornò in Svizzera aumentò di ben 10 Kg! Ricorda i problemi
con il dialetto dei locali (altro che tedesco!) ed il timore di sbagliare in
quanto allora, le autorità svizzere, ti avrebbero accompagnato direttamente
alla frontiera.
Dopo tre
anni e mezzo rientrò in Italia ed incominciò a lavorare in proprio con un
furgone “Ape”. Per quei tempi era un imprenditore.
Video 7
Anche
Gerardo (Mariapalma) ha avuto un’esperienza come emigrante in Svizzera dove
rimase tre/quattro anni. Con i soldi messi da parte comprò un appezzamento di
terra. Era partito a venti anni e, come tutti gli altri, aveva un contratto
stagionale presso qualche contadino. A Santomenna lavorava qualche giornata:
allora era tanta la povertà che i biscotti si vedevano solo a S. Felice e alla
festa di luglio.
Video 15
Michele
Venutolo è nato a Santomenna nel 1932 e come migrante ha girato mezz'Europa: a
23 anni è scappato dal paese per sfuggire al duro lavoro della campagna.
A metà
anni cinquanta partì per la Svizzera dove rimase una decina di anni, salvo una
breve parentesi in Svezia (Malmoe) dove non rimase molto perché si guadagnava
bene ma si spendeva molto a causa di uno stile di vita anche troppo libertino!
Dopo la Svizzera si trasferì a Monaco di Baviera.
In
Svizzera, come tutti, andò con un contratto iniziale presso un contadino: era
la prassi.
Dopo
qualche anno riuscì ad inserirsi nell'industria dove il lavoro era meno
faticoso.
Non ha
avuto problemi di integrazione: come altri, riferisce, che quelli che si
comportavano bene non avevano mai particolari problemi.
Significativa è stata
l’esperienza di emigrazione in Belgio, destinata al lavoro in miniera ed
improvvisamente terminata nel 1956, in seguito alla tragedia di Marcinelle,
nella quale persero la vita anche 136 minatori italiani.
Nel 1946, il governo
italiano e il governo belga strinsero accordi bilaterali che portarono
all'emigrazione massiccia di italiani destinati a lavorare nelle miniere di
carbone del Belgio.
Al di là delle
catastrofi – Marcinelle non fu la sola - la qualità della vita di questi
lavoratori era pessima, anche perché l'esposizione prolungata alle polveri di
carbone porta sistematicamente allo sviluppo di malattie inguaribili.
Per tutti gli emigrati
in Belgio nei primi anni cinquanta, il lavoro nelle miniere continuava ad
essere quasi la condizione obbligatoria di impiego: occorrevano almeno cinque
anni di permanenza nelle gallerie sottoterra prima di sperare di essere
impiegati in altri settori industriali.
Nonostante ciò in quel
periodo furono numerosi i disoccupati che abbandonarono l’Italia per il Belgio:
in cinque anni ne arrivarono ben 20.000. L’Italia in miseria fornì le braccia
al Belgio che aveva le miniere da far fruttare. L’Italia si assicurava 200 Kg
di carbone al giorno per ogni lavoratore.
Gli emigranti venivano
sottoposti a sistematiche e scrupolose visite mediche in entrata, ma al momento
del rientro i minatori non si preoccupavano di controllare il loro stato di
salute e, spesso affetti da silicosi (malattia provocata dall’inalazione
continua di polvere di carbone), venivano a morire in Italia.
Ho ancora vivo il
ricordo di persone, fra questi qualche parente, ritornate a Santomenna a
“cambiare aria”. Data la specificità e il numero di questa comunità di
“belgesi’”, tenuta sempre in grande considerazione anche dai candidati a
sindaco in occasione delle votazioni, di seguito viene dedicato un
approfondimento suggerito da un emigrante che a Bruxelles si è fatto onore.
Questa la testimonianza sull’emigrazione in
Belgio di Rocco
Di Martino, così come sono riuscito a tradurla
dal francese.
“Non si può parlare
della storia di sammennesi del Belgio, senza parlare della storia della
migrazione italiana. Senza tornare al tempo in cui i Romani invasero la Gallia,
troviamo una prima ondata di italiani che vivono in Belgio alla fine del 19 °
secolo. Negli anni '30 molti italiani, soprattutto del Nord, sono arrivati in
Belgio per sfuggire al regime fascista: che io sappia tra questi, non c'erano
sammennesi.
Quindi la stragrande maggioranza è arrivata dopo il 1946,
quando il Belgio e l'Italia hanno firmato un accordo che prevedeva lo scambio
di manodopera contro carbone. Decine di migliaia di italiani sono venuti a
tentare la fortuna ma, la maggior parte di essi, non sapeva nemmeno cosa
avrebbe trovato. É in quel periodo che molti Sammennesi sono arrivati. Alcuni
hanno anche lavorato con il “legno du Cazier” a Marcinelle.
Mio nonno materno, Felice Di Geronimo detto “Jacuvella”,
ha lavorato lì sette mesi nel 1951. Aveva portato con sé anche i guanti in
pelle che aveva usato per tagliare il grano con un falcetto (r manuegrh’).
Alcuni emigranti sono tornati, altri sono rimasti con le loro famiglie e dopo
di loro altri sammennesi sono venuti a vivere in Belgio, fino alla metà degli
anni '70. Questa terza ondata ha lavorato soprattutto nel settore industriale e
delle costruzioni.
A volte dimentichiamo che una parte del "miracolo
economico italiano" degli anni 50/60 è dovuto a quelle persone che hanno
lavorato in condizioni infernali. Oltre al fatto che l'Italia ha ricevuto il
carbone in cambio del loro lavoro, questi uomini hanno anche inviato buona
parte dei loro salari alle loro famiglie e, anche, hanno investito nel loro
paese natale, la maggior parte nel settore immobiliare.”
Riporto anche alcuni
stralci di una intervista che lo scrittore italo-belga Girolamo Santocono
(segnalato da Rocco) ha concesso ad un giornalista.
Oggi l’immigrazione
italiana in Belgio è portata come esempio di buona integrazione ma, certamente,
gli emigranti hanno pagato un prezzo elevato in termini di duro lavoro e
salute, come testimoniato nel libro di Santocono “Rue des italiens”.
L’italo-belga Girolamo
Santocono, emigrato in Belgio all’età di tre anni al seguito del padre
minatore, già nel 1986 pubblicò il suo primo romanzo “Rue des italiens”
(Edizioni Gorée), libro che è arrivato in Italia solo dopo venti anni.
Nel suo libro
“racconta le esperienze di uomini e donne che, subito dopo la guerra, sono
stati letteralmente ceduti dall`Italia al governo belga in cambio di qualche
tonnellata di carbone. Nostalgia, sogni, speranze contrappuntano le loro
esistenze, mentre intanto, giorno dopo giorno, il Paese dove sognano di tornare
cambia e si trasforma in un luogo sconosciuto. Più sconosciuto, forse, di
quello che li accolse”.
“Oggi, come allora,
l’emigrazione inizia sempre con un viaggio. Ora sono le carrette del mare che
scaricano sulle coste del Sud centinaia di disperati alla ricerca di un lavoro,
di un futuro, forse di un ritorno. Ieri erano gli italiani a riempire treni per
compiere il viaggio che li avrebbe portati nei paesi del Nord Europa in cerca
di lavoro, di un futuro per sé e per i figli, nella speranza di un ritorno”.
“Mi sono messo a scrivere”, dice Santonoco nella sua intervista, “anche per
raccontare come viveva questa gente, e per ricordare come duemila persone venissero
alloggiate in un ex campo di prigionia per tedeschi risalente alla seconda
guerra mondiale, senza acqua, senza gabinetti, con riscaldamenti di fortuna,
praticamente senza nulla”. ”Ho scritto il libro per dare una memoria storica a
quelli che sono nati dopo di me e per dire al Belgio: "Non dimenticate che
nella vostra identità di popolo entra la presenza di tutti gli immigrati morti
in questa terra". Non solo degli immigrati italiani, ma dei turchi, dei
marocchini, degli spagnoli, dei greci. Non si può annullare, non si può passare
sotto silenzio il loro apporto.
Quando sono arrivati gli italiani - 250 mila in tre/quattro anni - i problemi
ci sono stati. I belgi non ci affittavano la casa, perché ci consideravano non
integrabili. E poi, parlavano indistintamente di "italiani". Per loro
erano tutti italiani. Il bello era che questi italiani avevano culture
completamente diverse e fra loro sconosciute. Di fatto, la prima cosa che gli
"italiani" hanno scoperto non sono stati i belgi, ma loro stessi. E
fra di loro i rapporti erano più complicati che con i belgi, soprattutto nei
primi anni di immigrazione”.
”Il problema del razzismo, della xenofobia,” secondo Santocono, “di fatto non
esisteva perché gli italiani erano in tanti e loro avevano bisogno di persone
che lavorassero: avevano bisogno di noi e, diciamo, che ci siamo imposti. C'è
anche da dire che i valloni credo siano uno dei popoli più accoglienti al
mondo. I veri problemi li si aveva con lo stato belga che era xenofobo”.
”Il mio romanzo serve anche a dire state attenti a non fare agli altri quanto
hanno fatto a noi. Se deve servire a qualcosa ecco, serve a questo. E anche a
spiegare al mondo che la tolleranza, l'accettare gli altri non è soltanto una
bella idea morale: è sopravvivenza. Bisogna accettare che il mondo cambi e che
il mio vicino appartenga a un'altra etnia e parli un'altra lingua.
Dico questo perché la
storia dell'immigrazione passa sempre attraverso le stesse maglie. Ricordo
benissimo, come fosse oggi, quello che è stato fatto dai belgi agli italiani, e
sono le stesse cose che gli italiani oggi fanno ai marocchini. I belgi
consideravano gli italiani “inintegrabili” nella loro società, perché ferventi
cattolici. Dicevano che i siciliani tenessero segregate le mogli, che le donne
uscissero solo col fazzoletto in testa. Erano considerati dei barbari perché a
Pasqua sgozzavano l'agnello. Che fine hanno fatto queste persone partite in
cerca di un futuro, che non fosse quello di stenti, offerto dalle nostre terre?
Molti sono rimasti in Vallonia, portandosi dietro la famiglia, facendo nascere
o crescendo lì i propri figli. Ma per noi è come non fossero mai esistiti,
cancellati dal ricordo se non proprio dalle nostre anagrafi. Probabilmente
perché sono un ricordo scomodo di quello che eravamo (emigranti) e di quanto i
governi hanno sempre organizzato alle spalle dei cittadini.”
Santonoco ha voluto raccontare la vita di
questi immigrati italiani, dare la visione di una realtà che era dura, se non
tragica, e non nasconde nulla della loro sofferenza - dal taglio volontario
delle falangi delle dita per avere qualche giorno di riposo in più, alla
tragedia di Marcinelle, dalle morti annunciate dalle sirene delle ambulanze,
alle crisi di coscienza di chi pensava di aver perso la propria dignità di uomo
lavorando come una bestia in miniera o decideva dì non tornare più a casa alla
scadenza del contratto quinquennale, perché li almeno c'era lavoro. Santocono,
con il suo libro, ha reso omaggio a questa gente, “che aveva il sole nella
testa e che arrivava in Belgio sotto un cielo coperto dal nero del carbone,
sotto la pioggia".
Video 14
Giuseppe
Di Geronimo, un mio coetaneo oltre che compagno di scuola è emigrato in Belgio
nel 1965 e ha lavorato come panettiere. Partì per non rimanere a zappare a
Santomenna. Aveva solo 18 anni quando è uscito la prima volta da Santomenna: la
prima uscita ed esperienza la fece in Toscana come pizzaiolo. Anche lui ha
Santomenna nel cuore e vi ritorna spesso, almeno una volta all’anno. Però non
vi ritornerebbe a vivere da pensionato perché la mentalità e le situazioni a
Santomenna sono cambiate. Insomma, pure per lui era quasi meglio quando si
stava peggio.
Oltre che da
Wikipedia alcune notizie sono state ricavate dai seguenti siti visitati
nel settembre 2012
www.brigantaggio.net/brigantaggio/Storia/Meridionale/Q13.htm
www.instoria.it/home/emigrazione
italiana.htm
Il brigantaggio imperversò per anni fino al 1864 nei territori della
Basilicata e in quelli a confine. Briganti come Carmine Crocco, Schiavone, Josè
Bories, Minco Manco, Tortora, Volonnino erano padroni di queste terre
contrastati dalla sola Guardia Nazionale e talvolta dalle truppe piemontesi che
in molti casi compirono vere e proprie stragi. Molto ci sarebbe da scrivere sul
terrore che imperversò dopo l’Unita d’Italia e che determinò ancor più miseria
e disagi. (Pietro Di Majo)
[5]
http://www.galatamuseodelmare.it/cms/sezione%20emigrazione-189.html da cui ho
ripreso buona parte del testo. Il titolo è “MeM Memorie e Migrazioni”.
Il sito è:
http://www.ellisisland.org/
É figlio di Roxanne e di Frank Charles
Carlucci I, nato a Santomenna, il 7 aprile 1862, a sua volta figlio di
Carlo Carlucci e di Grazia Napoliello: nipote di Giovanni Angelo Carlucci.
I rapporti di Suzan Mazur sono apparsi sul Financial Times, Economist, Forbes, Newsday,
Philadelphia. Sito:
http://www.scoop.co.nz/stories/HL0506/S00418
Nipote, da parte paterna, di Rocco Di Martino detto anche
“puzifort’” in quanto, si racconta, era molto svelto a mietere in quanto aveva
un “polso forte”.