giovedì 19 dicembre 2013

BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO

    BUON    NATALE !!!!!!!!
 
                                                    foto Sabatino

Amici carissimi,

con l’approssimarsi del Natale ognuno di noi ritorna volentieri, anche solo con il pensiero, al proprio paese natio.
E’ una buona occasione, per chi non l’avesse ancora fatto, per richiedere il libro “Santomenna: sui sentieri della memoria” : avrà sicuramente  il modo di apprezzare anche qualche riferimento alla festività.


Chi è lontano può chiedere l’invio del libro seguendo le indicazioni riportate nel blog; 


Coloro i quali sono a Santomenna lo possono trovare presso la rivendita dei giornali.
 
Un'idea per farsi un omaggio o regalarlo a qualche amico/parente.

Ne abbiamo ancora alcune copie e saremmo tutti contenti se riuscissimo ad incrementare il contributo raccolto sino ad adesso ( circa 5.000 Euro)

Colgo l’occasione per annunciare che è mia intenzione utilizzare una  piccola parte del contributo per  una bella targa da mettere in una zona centrale: tipo “sotto la Chiesa”.
È giusto che Santomenna ringrazi i  suoi figli costretti a realizzare il loro destino “in giro per il mondo”  e che  hanno comunque  conservato nel cuore l’amore per il loro paesello.
Anche grazie a loro sacrificio, dopo gli anni sessanta, in Italia raggiungemmo un progresso economico inaspettato.
Un giusto omaggio ai tanti emigranti che con entusiasmo hanno ordinato molti libri ed hanno inviato il loro contributo. E’ giusto che le future generazioni non dimentichino.
La parte rimanente del contributo verrà utilizzata, come promesso, per un intervento sociale.
 E' auspicabile che il contributo venga incrementato anche da offerte libere che ognuno potrà inviare sul conto.

Mi farebbe  piacere in proposito conoscere anche il vostro pensiero, sia  riguardo alla “targa” che dell’utilizzo della parte rimanente.
... è solo un' idea, un esempio frutto di un fotomontaggio

Intanto colgo l’occasione delle prossime festività per augurare a tutti voi un buon Natale ed un felice anno nuovo.

Come regalo pubblico su questo blog alcune considerazioni/riflessioni dell’amico Raffaele Loffa ( vale la pena leggerlo)
 

domenica 15 dicembre 2013

ALTRI TEMPI: UN REGALO PER NATALE 2013

Per gentile concessione del prof. R. LOFFA di Barile
 
UN TEMPO SI VIVEVA COSI’…

 
 
A scuola, oltre ad insegnare le materie solite, abbiamo spesso affrontato anche argomenti relativi agli usi, costumi e tradizioni del nostro paese: canti popolari, feste, giochi,magia e credenze, proverbi, la vita in casa e nei campi, l’artigianato, il modo di vestire, ecc. hanno rappresentato un vasto campo in cui spaziare nell’ambito di ciascuna disciplina d’insegnamento.

L’atteggiamento e la reazione dei ragazzi non ci hanno sempre incoraggiati: sorrisetti maliziosi, sbadigli, disinteresse ci hanno spinti a domandarci a chi o a che cosa servisse tutto questo. Nonostante tutto però, forse anche per un nostro intimo e sottile piacere, abbiamo continuato a parlare di un mondo contadino che appartiene alla maggior parte di noi, e lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo con la struggente nostalgia e con gli occhi lucidi di chi in esso è cresciuto e della sua cultura si è nutrito, fino a portarne una traccia indelebile nel proprio DNA.

Oggi quel mondo è scomparso, forse per sempre. Molti lo hanno rimosso dalle proprie coscienze, lo hanno esorcizzato e tentano di dimenticarlo e di cancellarlo, associandolo a mancanza di comodità, di benessere, alla presenza di fatica, di sacrifici, di stenti, di sofferenze in un duro e quotidiano lavoro, per procurarsi quanto necessario per la vita, ad incominciare dal "pane quotidiano" per sfamare la famiglia, quasi sempre numerosa. Molti, presi dalla foga del nuovo, hanno addirittura distrutto o buttato stoviglie, mobili e oggetti del passato, quando furbi rigattieri non se ne sono appropriati per quattro soldi. Il resto lo ha fatto l’arrivo degli oggetti in plastica che, oltre a mandare in crisi irreversibile l’artigianato locale, ha consentito all’uomo, il "re" inquinatore dell’intero Universo, di attrezzarsi per farlo al meglio.

Anche i vari terremoti hanno giocato un ruolo importante per la progressiva scomparsa di oggetti e mobilio: già all’indomani del disastroso terremoto del 23.11.1980 tra le macerie si aggiravano degli autentici "sciacalli" che portavano via quanto potevano o compravano per quattro soldi mobili antichi o dando in cambio orrende e orribili casse a baule: I rigattieri, gli antiquari, gli intenditori senza scrupoli e quelli che non avevano avuto la casa distrutta fecero affari d’oro. Fortunatamente qualcuno conservò gelosamente qualche oggetto, quasi come una preziosa reliquia, ed è fiero ora di mostrarlo ed esibirlo. Mi è capitato di constatarlo con il compianto Duilio Tudisco, meglio conosciuto negli anni ottanta come "orto fresco", perché andava di porta in porta a vendere i suoi prodotti agricoli. Mi ha mostrato e consentito di fotografare con enorme entusiasmo un gran numero di oggetti e di attrezzi custoditi con grande meticolosità, tra cui di sicuro pregio ruoti, bracieri e "callare" di rame, avuti in dote dalla moglie, anch’essa deceduta recentemente e destinati ora ai figli e alle nuore: il dono sarà apprezzato? Un’altra bella serie di oggetti si trova nella casa di Raffaele Di Ianni, già sindaco di Carife, in quella di Giuseppe Colella, dipendente del Comune e in quella del sottoscritto, che colleziona, quasi a livello maniacale e morboso, simili oggetti. Ma suppellettili, mobili e "ruagne" antichi si trovano quasi in tutte le case di Carife.

La nostra, almeno fino agli anni Sessanta del secolo scorso, è stata un’economia di pura e semplice sussistenza e sopravvivenza. Spesso si è andati altrove a cercare fortuna e l’emigrazione ha falcidiato la nostra popolazione. Comunque un gran numero di artigiani (mugnai, fabbri, calzolai, barbieri, falegnami, muratori, sarti, ramai, "stagnari", fornaciai, tessitrici, ricamatrici, frantoiani, "scardalani" e…chi più ne ha più ne metta…) ha sempre consentito al nostro paese di essere invidiato dalle popolazioni limitrofe, che qui spesso inviavano giovani apprendisti e prestatori d’opera. Il nostro sistema economico, per così dire "chiuso", ha sempre consentito a tutti una vita onesta, anche se non agiata e, soprattutto, ha sviluppato un grande spirito di sacrificio e di solidarietà, oggi purtroppo sempre meno presente. I ragazzi magari ci sono apparsi più curiosi di sapere che una volta le donne, quando si raccoglievano le olive, non indossavano…le mutande e non portavano ancora i pantaloni o quando, sedendosi all’ombra tutti per terra a mangiare, occupavano i posti più a valle, per evitare le occhiate furtive dei maschi…sempre pronti a spiare sotto le loro gonnelle. A volte hanno sorriso maliziosamente, guardando verso le ragazze, quando in classe si è detto che una donna indisposta non poteva preparare la salsa ed i salumi perché si sarebbero "guastati". Sono rimasti perplessi quando abbiamo parlato delle credenze legate alle fasi lunari ("mancanza" e "crescenza") per il lavoro dei campi (semina, raccolta della frutta e degli ortaggi, conservazione, ecc.) o dell’influsso esercitato dalle cicliche ricorrenze del martirio di San Sebastiano ("Sant Sav’stiano) in tutte le fasi delle operazioni agricole.
 
Hanno riso quando abbiamo citato alcuni proverbi e detti popolari, tipici della "sapienza" e della filosofia contadina. Quello sicuramente più simpatico, eloquente ed espressivo è legato alla conservazione delle filze o dei mazzi d’aglio: quando arriva la primavera e canta il cucùlo l’aglio germoglia e te lo puoi mettere nel…(cerca una parola che fa rima con cucùlo…). Analoga sorte toccava alle cipolle, alle patate e alla noce, che, una volta arrivata la Croce (3 maggio), andava buttata perché si irrancidiva. " A la Croce, scetta la noce". Che dire poi del famoso detto "vruocc’l e pr’r’catur, passat’ Pasqua, nun songh bbuon’ cchiù" (Broccoli di rape e predicatori, passata la Pasqua, non sono più buoni). Abbiamo continuato imperterriti a parlare di quel mondo mandato in pensione dall’arrivo di un maggiore benessere, di un più consono tenore di vita o della "modernità" come dice qualcuno. Lo abbiamo fatto nella convinzione che un popolo non può fare a meno del proprio passato e non può e non deve assolutamente dimenticare che la vita di oggi è figlia legittima di quella di ieri e tradizioni e passato non vanno trascurati o peggio rimossi, quasi fossero una vergogna: chi lo fa è come se rinnegasse i propri genitori e le proprie radici o spezzasse l’anello di una catena, alla quale tutti noi siamo appesi. Spesso siamo stati incoraggiati da qualche ragazzo che mentre si parlava ha detto: "Professore, quello che dite è vero, me lo ha detto anche mio nonno…" Con questo spirito abbiamo voluto raccogliere e fotografare una serie di oggetti e suppellettili, che testimoniano la nostra vita passata. Non è stata un’impresa facile: molti oggetti non sono stati più trovati, come ad esempio la padella che serviva per abbrustolire l’orzo, la "c’culatera" per prepararlo, "lu scarfaliett" per riscaldare il letto e tanti altri. Prima che scompaiano del tutto queste preziose testimonianze sarebbe opportuno che l’Amministrazione comunale si adoperasse per costituire un museo della civiltà contadina, magari negli immensi spazi lasciati liberi dalle scuole, soprattutto a seguito del calo del numero degli alunni.

Come succede ancora oggi nelle nostre case, gran parte della giornata, soprattutto durante l’inverno, veniva trascorsa in cucina, che era contemporaneamente anche soggiorno e sala da pranzo e in qualche casa anche camera da letto. Il focolare era il centro intorno al quale tutto ruotava: davanti ad esso, magari in compagnia dei vicini, ci si sedeva in cerchio su scanni e sedie e si sgranocchiavano ceci abbrustoliti, si mangiavano patate cotte sotto la cenere ardente, si ascoltavano racconti fantastici, esperienze di vita. Al tenue chiarore emanato dalla fiammella di una piccola lucerna ad olio le nostre fantasie di bambini, e spesso i nostri sogni, si popolavano di esseri misteriosi: "scianare", "scazzamarieddi" e "pump’nar’" erano protagonisti nei racconti dei vecchi. Io ero particolarmente affascinato dallo "scazzamarieddo", una specie di piccolo gnomo dal cappello rosso, che talora di notte veniva a sdraiarsi sul tuo corpo ed il suo peso aumentava sempre di più; bisognava ingaggiare una vera e propria lotta per scuoterselo di dosso, ma se fossi riuscito a prendergli il cappello avresti potuto chiedergli qualunque cosa: buona sorte, amore, denaro e quant’altro di buono avresti voluto dalla vita. E lui te l’avrebbe dato…

Nelle case esistevano vari tipi di focolari e di camini. Naturalmente in quelle dei benestanti i camini erano di pietra,lavorata artisticamente dai numerosi scalpellini della zona.

In altre case, quelle più numerose, c’era la ben nota "cucina a vapore", dotata di "callare" di rame di varie dimensioni. Spesso sull’ampio ripiano e tra le due caldaie era situato un pozzetto scaldavivande chiuso da cerchi di ferro concentrici, che permettevano l’appoggio sui carboni accesi di un "tiano di creta", nel quale era tenuto al caldo il ragù, che, magari continuava a cuocere borbottando.

Spesso la cucina a vapore era dotata di una sola caldaia e sotto di essa c’erano due sportellini, uno per attizzare e l’altro per raccogliere la cenere, che vi scendeva attraverso una griglia.

Le caldaie venivano usate soprattutto quando si faceva la salsa di pomodoro. Al di sopra della bocca del camino c’era un perno di ferro al quale si appendeva un "callaro", mediante una catena fornita di ganci e formata da grossi anelli. Era possibile regolare la sua altezza sul fuoco, quando si dovevano lessare le patate o quando si doveva cuocere la pasta fatta in casa o lessare le verdure.

Sul ripiano superiore del camino ("’ncimma a lu muridd’") o su una valvola del tiraggio trovavano posto anche le scatoline contenenti i fiammiferi di legno ("Li micciariell") che quando venivano sfregati e si accendevano emanavano un acre e pungente odore di zolfo che ti toglieva il respiro. Talora vi erano poggiati anche il ferro da stiro, il macinino per il caffè, o qualche altro oggetto di uso quotidiano.

In qualche casa, specialmente in campagna, il caminetto era davvero povero e semplice ed era costruito con mattoni. Per molto tempo il focolare continuò ad essere il vero centra della casa.

Nel camino era facile vedere anche un bel mattone che, riscaldato a dovere ed avvolto in uno straccio spesso bruciacchiato, veniva inserito nel letto e serviva per riscaldare i piedi.

Appeso ad una parete della cucina c’era quasi sempre un antico fucile, trasmesso in eredità da padre in figlio. I più antichi si caricavano "a bacchetta", cioè ad avancarica.

Poi purtroppo arrivò la radio e si ascoltò più lei e…meno gli altri. La voce caratteristica di Niccolò Carosio ci faceva vivere le emozioni del calcio. Arrivarono nelle nostre case le canzoni del festival di San Remo e il giorno dopo tutti potevano canticchiarle per le vie e i vicoli del paese.

Davanti al focolare si traevano auspici per il futuro udendo il verso inquietante di una civetta o guardando ed ascoltando il crepitìo delle scintille provenienti dai tizzoni ("Li c’ppun’) che ardevano e sfrigolavano nel camino ("La ciumm’nera").

Gli anziani, vedendo la fiammella ondeggiante della luce ad olio fare il "fungo" o guardando il gatto, accovacciato davanti al fuoco, passarsi l’orecchio con la zampa inumidita con la lingua per "pulirsi la faccia", facevano le previsioni del tempo per i giorni successivi…e spesso si avveravano.

Il gatto, affamato, meditava intanto di divorare il saporito " lucigno" imbevuto d’olio, una volta raffreddato dopo che tutti erano andati a letto…e dava uno sguardo distratto e sospiroso al pezzo di lardo o di "puttur’nedda" appesi alla pertica (Tanto va la gatta al lardo…che ci lascia solo l’uncino).

Spesso il gatto, troppo "cenerentolo", aveva il pelo bruciacchiato qua e là da scintille o da contatti accidentali con qualche carbone incandescente. Sonnecchiava davanti al fuoco, se lo prendevi in braccio potevi sentire il suo ron…ron quando faceva le fusa. Era libero di entrare e uscire di casa a suo piacimento, specialmente di notte e nel periodo degli amori, attraverso un apposito foro circolare praticato nella parte bassa della porta o della "purtedda", una sorta di seconda porta a metà altezza. Spesso il gatto faceva finta di non vedere qualche topolino, che si aggirava tranquillo ma guardingo tra i sacchi di grano trebbiato da poco: già sapeva come sarebbe andata a finire più tardi o forse avevano sottoscritto un patto di non aggressione. Ora i gatti vengono trattati a croccantini e golosi bocconcini e…non sanno più che i topi sono di gran lunga migliori. Anche per loro i tempi sono cambiati…

Quando poi arrivò la televisione diventammo un po’ tutti schiavi di questo nuovo mezzo di comunicazione, che conquistò grandi e piccini. Lassie, Rin Tin Tin, Furia, Mike Bongiorno con i suoi quiz, Mario Riva, il Mago Zurlì, Carosello, Tribuna politica, i Documentari, le previsioni del tempo del colonnello Edmondo Bernacca sconvolsero le nostre abitudini di vita: non andammo più a letto…con le galline o molto presto la sera, parlammo sempre meno in casa e fra di noi ma, in compenso, i nostri sogni si popolarono delle avventure appena viste e spesso ne diventammo protagonisti; ci tornavano in mente, turbando i nostri sogni giovanili, le belle e procaci vallette e le "Signorine buonasera", come da subito furono chiamate le annunciatrici, delle quali eravamo tutti un po’ innamorati…

Per addormentarci sognavamo gli intervalli e contavamo le pecore che pascolavano tranquille al suono di un’arpa…

Allargammo le nostre conoscenze a tutto il mondo, conoscemmo storie e culture lontane, ma perdemmo tristemente di vista noi stessi e i nostri vicini… che ancora non abbiamo ritrovati e temo che non ritroveremo più, e non solo perché sono morti…

Davanti al fuoco, in una "pignata", bollivano, gorgogliando e borbottando, profumatissimi ceci o fagioli: noi aspettavamo che cuocessero per avere la nostra parte di "cicc’ cuott’". Talora sulla brace si arrostivano le castagne e si mangiavano ancora bollenti. La fiasca con il vino o una cecina smaltata veniva fatta girare e ognuno beveva tranquillamente, senza problemi, dalla stessa "cannedda".

Poi arrivò il "Pibigas": si accese sempre meno il fuoco e molti oggetti finirono tristemente in soffitto o in cantina. Molti altri cambiarono da subito le proprie mansioni, furono venduti agli antiquari ed emigrarono o diventarono portafiori e portaombrelli. Da essi si cancellò il fumo e le tracce di colatura dei cibi che vi si cuocevano: si cancellò in buona sostanza la loro patina di antichità e persero la loro storia ed il loro incredibile fascino…

Fu poi la volta del lume a petrolio, poi dell’acetilene ("la ciutulera"), funzionante a carburo, e infine della lampada a gas, che funzionava con la bombola di Gas e con un piatto sospeso al soffitto munito di una "calza" che, una volta accesa, diventava incandescente.

Ogni tanto qualcuno prendeva la "paletta" o l’immancabile "iataturo" e ravvivava e attizzava il fuoco: le scintille, scoppiettando e volando qua e là, mettevano tanta allegria in tutti noi e aleggiava nell’aria il classico odore della lana delle calze che bruciava…

Fuori intanto infuriava la "Voria" (Tramontana) o la "Luanta" (Vento di Levante) e un anziano sentenziava: " La Luanta nun ven’ mai vacanta". Una vecchietta aggiungeva "La Voria a la luata, la Luanta a la pusata". Noi piccoli domandavano: " E che vuol dire?" Lei, paziente, spiegava che proprio quando il vento cambia improvvisamente direzione e si dispone da Nord (Bora) si ha il tempo peggiore, mentre quando il vento proveniente da Est (Levante) si posa, ossia smette di soffiare, arrivano pioggia e neve e un’altra vecchietta, a conferma, saggiamente aggiungeva: "Quann’ mena la Luantina, prepar’te la farina".

Talora fuori nevicava, "lu pruin" entrava da sotto la porta… e le folate di vento facevano venire i brividi a grandi e piccini.


Davanti al fuoco, "rint’ a lu ching", spesso cuoceva la saporitissima e profumatissima pizza di granone. Se chiudo gli occhi rivedo la scena, risento l’odore, mi viene l’acquolina in bocca, avverto un groppo alla gola e mi assale… una malinconia esacerbata…forse perché sto diventando vecchio e i vecchi, si sa, si commuovono spesso ed hanno la lacrimuccia facile.

Erano altri tempi: i sapori erano più genuini, i ritmi di vita non erano frenetici come quelli di oggi e scorrevano più lenti, c’era maggiore solidarietà tra di noi: eravamo sì più poveri, ma molto più ricchi dentro…e soprattutto più uniti.

Nelle calde serate estive, seduti insieme davanti alle porte, si parlava del più e del meno e si faceva anche qualche pettegolezzo; gli argomenti preferiti erano le pensioni che incominciavano ad arrivare e quei pochi soldi bastavano anche per fare qualche regalo ai nipotini… dell’andamento dell’annata, dei lavori da fare. Le donne sferruzzavano fino a tarda sera, ma non si parlava di prezzi che aumentavano, di violenze sui bambini, di fatti di cronaca nera, di scandali nella politica, di "mani pulite", di "toghe sporche", di decreti salva questo o salva quello, di droga, di immigrati clandestini, di sicurezza, di furti e rapine, di vandalismi e di bullismo, di disoccupazione giovanile, di matrimoni fra omosessuali, di soldi che non bastano per arrivare a fine mese, di rifiuti che soffocano la Campania, di discariche da fare in Irpinia, di Veltroni e Berlusconi, di bambini che sono sempre di meno, di scuole che chiudono, di vecchi da far assistere dalle badanti, di mariti che si perdono dietro di esse, di Rom, e di tante altre questioni sempre più inquietanti.

Nella cucina erano anche presenti numerosi altri oggetti necessari ogni giorno. Solitamente, dietro la porta o accanto ad essa erano appesi i pesanti scialli indossati dalle donne quando dovevano uscire per sbrigare faccende o andare a messa, e il pastrano o la mantella di panno nero usati dagli uomini quando uscivano per andare dal barbiere o alla cantina a giocare a "padrone e sotto". Questi indumenti spesso puzzavano di fumo, perché quando soffiavano "venti contrari" il "cacciafumo" non tirava e il fumo invadeva cucina e piano superiore e si attaccava agli indumenti.

L’odore del fumo si avvertiva soprattutto in chiesa, quando si ascoltava la messa o si assisteva alle altre funzioni religiose o si accompagnava al cimitero un altro che se n’era andato.

In uno dei due buchi situati ai lati della porta trovavano posto il pettine ("lu sp’cciatur") e, più tardi, "la pett’nessa". I pettini, necessari a volte anche per rimuovere dai capelli le uova dei pidocchi ("li linn’l’") avevano i denti molto stretti, erano d’osso e venivano fabbricati dai "Cast’ddani" (abitanti di Castel Baronia), che erano soprannominati "secacorna". Appeso dietro la porta c’era anche un piccolo specchio.

Nell’altro buco solitamente si conservavano, in batuffoli, i capelli che le donne perdevano mentre si pettinavano; essi venivano ritirati, in cambio di aghi, ditali, "ruzzielli", spolette di filo, mollette e fermagli per i capelli, "spingole"(spille da balia) e altra merceria, piatti, ecc. da commercianti ambulanti che giravano tutta la Baronia, richiamando le massaie al grido di "Capill’,capillar’".

Alcuni sicuramente ricorderanno ancora un certo "Pascariell", che sposò una carifana, figlia di Rocco Bonavita ("Taboscio") girare per le vie del paese con un panierone al braccio, pieno di ogni mercanzia.

Dietro la porta era possibile trovare anche un pezzo di legno, appuntito e affilato come una lama di coltello chiamato "annettaturo", utile per ripulire le pesanti scarpe di suola dal fango rimastovi attaccato, quando si tornava dalla campagna o si percorrevano le strade del paese, ancora non lastricate. Le scarpe, confezionate dai calzolai di Carife, erano munite di bulle ("c’ntredde") e venivano ammorbidite con sebo di pecora (" ru siv’") o ungendole con un pezzo di lardo irrancidito, cosa questa che le rendeva molto appetibili ai cani, che talvolta le rubavano e se le rosicchiavano, unitamente alle stringhe ( "re curr’sciol’" o "li lacc’").

Dietro la porta era possibile anche trovare, per un anno intero, i ramoscelli di ulivo benedetti in occasione della Domenica delle Palme.

Sempre in prossimità della porta, che immetteva direttamente nella cucina, si trovava un trespolo di ferro battuto che reggeva un bacile bianco smaltato e una brocca. Era dotato di un piccolo ripiano portasapone e di un prolungamento oltre il bordo superiore, al quale veniva agganciato l’asciugamano. L’attrezzatura serviva per lavarsi mani e viso quando era necessario.

E’ noto infatti che solo pochi avevano in casa i bagni, che furono progettati, a Carife, solo dopo il terremoto dell’Agosto del 1962. Prima non c’erano e ognuno risolveva i propri bisogni corporali nei modi che vedremo più avanti; oltretutto mancava anche un’ efficiente rete fognaria…

Dietro la porta era anche possibile trovare la scopa di miglio, necessaria per fare le pulizie in casa. Veniva fabbricata, come tante altre cose, a Carife.

Al soffitto, a volte costituito da "affumate" travi di legno e tavole (" li suldarin’"), era attaccata una lunga pertica, dalla quale pendevano salsicce, sopressate, pezzi di lardo, prosciutti e spalle salati, vesciche piene di sugna ("’nzogna" o "saima"), "’nserte" di agli, cipolle e peperoni secchi, mazzetti di pomodorini della regina ("Li pienn’c’"). Il tutto, con il lento trascorrere dei giorni e dei mesi, assumeva un forte odore di fumo, che rendeva più appetitoso e saporito ciò che si portava in tavola.

A volte dalla pertica pendevano anche pezzi di baccalà, allora considerato cibo dei poveri e ora diventato costosissimo e quasi un lusso per tutti.

Alla pertica era anche attaccato un mazzetto di "piedi di porco" salati e raggiunti spesso dalle mosche, come del resto accadeva per tutto ciò che vi era appeso.

A primavera poi agli e cipolle "si innamoravano" e cacciavano i germogli e la pertica si tingeva di verde.

Ovviamente in casa erano presenti anche tutti i contenitori necessari per "stipare" la roba: cesti e panieri (" cosc’n’" e "panar") intrecciati con vimini ("vitt’l") e canne, vasi e vasetti di diverse dimensioni occorrenti per conservare la saporita e profumata salsa di pomodoro essiccata al sole, salsicce e sopressate ("zazicch’ e suprussuat’") sottolio, sugna, ecc.

La non molta acqua necessaria per gli usi domestici bisognava andarla a prendere ai "fontanini", installati nel paese dopo gli anni venti del secolo scorso, quando arrivò l’acqua dalle Bocche. Prima essa veniva attinta alla fontana del Giuliano, alle Fontanelle o a quella che si trova tuttora in Via Fontana Nuova. Alle fontane si andava anche per lavare le verdure e per sciacquare i panni. Si usavano "quartare", quartaredde" e conche di rame, presenti in casa anche come oggetti del corredo delle donne. L’acqua da bere veniva conservata in recipienti di terracotta, che erano in grado di mantenerla fresca e facili da portare anche in campagna ("Ciotole e ci’cen") Tutti questi oggetti ("ruagne") erano fabbricati a Carife da espertissimi fornaciai e "ramari" e venivano venduti anche nei paesi vicini.

Poi arrivarono grosse conche e catini di zinco e le quartare andarono…in pensione. L’arrivo dei contenitori di plastica mandò in soffitto o all’immondezzaio i contenitori di terracotta e i tanti fornaciai di Carife ebbero sempre meno lavoro e spesso furono costretti a cambiare mestiere. Il resto lo fece il disastroso terremoto del 23 novembre 1980. Sparirono anche le ultime fornaci presenti nel centro urbano.

Solo ultimamente un giovane ha ripreso, con molto coraggio ed entusiasmo, l’attività di fornaciaio e fabbrica oggetti e "ruagne" di buona qualità, molto richiesti da nostalgici ed inguaribili amatori a caccia di ricordi e di emozioni, che spesso solo il passato può procurarci.

Purtroppo però per le vie di Carife si aggirano ancora rigattieri senza scrupoli, pronti a scovare e a portar via gli ultimi "pezzi" ancora rimasti.

La fontana finiva per diventare un luogo di incontro e si poteva spettegolare di questo e di quello. Lungo la via che conduceva alle fontane e, in seguito, ai fontanili, i ragazzi si aggiravano guardinghi per incontrare le ragazze che andavano ad attingere l’acqua e magari scambiare quattro chiacchiere con loro, dichiararsi o portare ambasciate ("ammasciate") per conto di quelli più grandi.

Ovviamente gli oggetti di terracotta, in questo andirivieni, spesso si rompevano e occorreva comprarne di nuovi, che a Carife certo non mancavano. "Tant’ vaie la quartara a l’acqua…"

Comunque penso che qualcuno ancora ricordi il gorgogliare dell’acqua fresca che, singhiozzando, usciva dal collo della ciotola, che magari aveva perduto, durante il lungo uso, un pezzo del "musso" quadrilobato o un manico: si rimuoveva la foglia di vite o di un altro albero dalla bocca della ciotola o, se si trattava di un cecine, il tappo di legno legato con lo spago ad uno dei due manici, si avvicinava alle labbra e l’acqua ti entrava gorgogliando e garganellando nella bocca e, traboccando dai lati nel collo, ti bagnava il petto, dandoti una sensazione di fresco benessere, facendoti emettere il tipico sospiro che viene quando ti buttano addosso l’acqua fredda e… togliendoti la sete.

Poi il recipiente, "sudato" per la condensa o avvolto in uno straccio umido, passava ad un altro o ad un’altra e nessuno, mai nessuno, faceva lo "schifiltoso", rifiutandosi di bere dallo stesso "cecine" o dalla stessa ciotola: ma quelli erano altri tempi…ed ora lo fanno solo, per ben altri motivi, quelli che giocano a "padrone e sotto" e ti tolgono il bicchiere dalle labbra, perché devono vendicare o ricambiare "un urmo" subito.

Quando la nostra famiglia era impegnata nel duro lavoro dei campi, che iniziava di buon mattino al canto del gallo e terminava al calare delle prime ombre della sera, toccava a noi piccoli andare a riempire ciotole e ci’cen’ alla pila o "a lu ‘ntresc’l’", che si trovava nei dintorni. Vi andavamo pigramente e di malavoglia, e ci attardavamo alla ricerca di alberi carichi di rosseggianti e dolci ciliegie da…saccheggiare o di profumate albicocche, pere, susine e frutta varia da portare, unitamente all’acqua fresca, alla paranza di mietitori assetata sotto il sole cocente o a chi rincalzava ("accauzava") il granone, scavava le patate, raccoglieva il tabacco, ecc.. Spesso ne facevamo delle vere e proprie scorpacciate da far venire il mal di pancia, ci riempivamo "il petto" e lo sguardo burbero, ma nello stesso tempo ridente di genitori, nonni e fratelli più grandi costituiva per noi un’enorme gratificazione e ci ripagava per tutta la fatica fatta. Nessuno temeva pesticidi e veleni e non ricordo che le ciliegie avessero i vermi. A dire il vero talora la fame era tanta che non scartavamo neppure i …nocciolini (" r’ nuzz’l’").

A volte lungo la via che dovevamo percorrere ci attardavamo ad osservare le lucertole che facevano capolino dalle siepi o prendevano il sole e cercavamo di catturarle, facendo un nodo scorsoio ad un lungo stelo di avena selvatica ("Li gradd’l") e avvicinandolo alla loro testa: bastava tirare ed il gioco era fatto. Spesso ci spaventavamo udendo il fruscìo improvviso di un verde ramarro ("l’aciertl") spaventato o vedendo un grosso serpente nero strisciare verso una siepe. Altre volte scoprivamo il nido di un merlo o di una pica e ascoltavamo, in silenzio, il canto melodioso dell’usignolo ("lu riscignuol’"), cercando di individuarne la provenienza, o il frinire della cicala, che cercavamo di catturare, quando era ferma sul tronco di un olmo, a portata di mano. "Tu chiamale, se vuoi, emozioni…"

Nelle case, sia in paese che in campagna, potevi trovare tutto ciò che serviva per fare il pane e per fare la pasta in casa. Tutti avevano la madia (la "fazzatora"), in cui si conservava la farina e, affondato in essa, il lievito necessario per la "panata" successiva o da restituire alla vicina che ce lo aveva prestato.

A volte la madia si trasformava in stipo e vi venivano riposte pentole e recipienti contenenti cibi avanzati, da consumare in un secondo momento. Era questo un ottimo sistema per tenere lontano il piatto da visite di gatti e affini e soprattutto da occhi indiscreti.

C’era poi l’immancabile tavola ("lu tumpuagn’") necessaria per preparare e spianare la sfoglia ("lu puann’"), il matterello ("lu lahenatur’"), uno scopino di miglio per spazzare o raccogliere la farina ("Lu scupidd’"), la seta e la rasola, un raschiatoio metallico, chiamato, in dialetto, la "rar’tora". L’attrezzatura per fare la pasta era solitamente appesa ad una parete della cucina mediante una cordicella.

In casa non poteva assolutamente mancare un alimento di base: il sale. Allora si vendeva sfuso ed era "grosso". Tutti possedevano almeno un mortaio ove pestarlo e sminuzzarlo con un pestello quasi sempre di legno ("Lu murtual’ e lu p’satur’). Il mortaio solitamente era di pietra, ma poteva essere anche di legno e talvolta di bronzo lavorato artisticamente.

Accanto al fuoco era solitamente piazzata una cassapanca ("Lu casciabanch’"), che aveva le funzioni dell’odierno divano, assente dalle case dei poveri. In esso, alzando il coperchio della "seduta", era possibile riporre oggetti, legna da ardere, indumenti, ecc.. Anche questo era costruito, a volte con grande maestria, dai nostri falegnami, che utlizzavano diversi tipi di legno.

Ovviamente in casa c’erano anche tavoli e tavolini necessari per le più svariate occasioni, prima di tutto per mangiare. In tutte le case c’era una tavola, più o meno grande, chiamata dialettalmente "buffetta" (chiaramente un "francesismo", come turnachè e sciaraballo) e un tavolino più alto ( "Lu buff’ttin’"). Erano entrambi muniti di uno o due tiretti ("li t’ratur’"), nei quali oltre alla tovaglia ("lu stiaucch’"), venivano riposte le poche posate a disposizione ("furcin’ e cucchiar’"). I tovaglioli erano poco usati: ci si puliva alla tovaglia grande.

Le sedie di legno erano impagliate con grande perizia dall’indimenticato Samuele Festina, un uomo semplice ma molto intelligente e dotato di una sua simpatica filosofia, che lo rendeva gradito a tutti. Con lui collaborava la moglie, che gli aveva insegnato il mestiere.

In tutte le case di Carife erano presenti, più o meno numerosi, gli oggetti e le stoviglie di rame, che la donna portava in dote come componente fondamentale del proprio corredo.

"La rama", lavorata dai "ramari" di Carife, comprendeva pentole e pentoloni di varie dimensioni, la conca per l’acqua, ruoti dotati di manici e ruoti da forno forniti di un anello utili per appenderli in bell’ordine ad un "appendirame" inchiodato ad un muro della cucina.

L’oggetto di rame sicuramente più bello presente nelle case era il "braciere", necessario per trasportare i carboni ardenti dal camino agli altri ambienti da riscaldare, in quanto nel passato nemmeno troppo remoto le case erano sprovviste di impianto di riscaldamento centralizzato.

Di rame era anche l’immancabile pompa irroratrice necessaria per dare il verderame alle viti, onde prevenire la peronospora o, talvolta, per imbiancare le pareti con la calce.

Gli oggetti di rame venivano periodicamente stagnati da artigiani di Carife. Tutti ricorderanno ancora lo stagnino Antonino Sauro, soprannominato "stagnariedd’", per la sua piccola statura, e Antonio Pali, originario di Vallata, chiamato da tutti "z’ Ntonio lu ramar’".

Ovviamente anche le pentole di alluminio, quando arrivarono, ebbero il loro posto accanto ai ben più prestigiosi oggetti di rame.

Essi si pulivano con maggiore facilità e non avevano bisogno di essere periodicamente lucidati, come occorreva fare con il rame.

In molte case era anche presente la graticola necessaria per arrostire la carne sulla brace, specialmente quando si ammazzava il maiale, un’occasione di festa per la famiglia e per parenti e vicinato.

In casa ovviamente non poteva mancare quanto occorreva per cucire, per stirare e per rammendare gli indumenti necessari. Quasi tutte le donne lo sapevano fare ed insegnavano l’arte del cucito, del ricamo, dell’uncinetto, del lavorare la lana con i ferri alle figlie femmine o alle nipoti.

In casa non potevano mancare i piatti da portata, le posate e tutto quanto occorreva per cuocere i cibi e per portare da mangiare a chi lavorava in campagna, soprattutto durante la mietitura e la raccolta delle olive. I piatti solitamente erano pochi e si preferiva mangiare tutti insieme nella "spasa", magari usando a turno le poche forchette o i pochi cucchiai disponibili. Ciò non si verificava nelle famiglie più agiate. I piatti, le spase e le spasette venivano lavati dopo l’uso e riposti in un apposito armadio sospeso al muro, chiamato, in daletto, "Armal’".

Spesso le poche forchette a disposizione si arrugginivano, perché erano di ferro, e bisognava strofinarle a lungo con la sabbia per ripulirle dalla ruggine. Quando non erano sufficienti, oltre che fare a turno, si appuntivano dei pezzi di legno e si usavano come forchette o, se occorreva il cucchiaio, si usavano delle fette di pane. Oggi cucine e sale da pranzo traboccano di servizi di posate, di piatti, di tazzine di ogni forma e misura, di bicchieri, di pentole che fanno parte del corredo delle donne o sono frutto dei regali ricevuti per le nozze. Rimangono nelle credenze e nelle cristalliere senza essere mai usati e a volte vengono "riciclati", stando attenti ovviamente a non restituire i regali a chi…ce li ha fatti.

Tra gli altri oggetti della cucina non potevano mancare un mestolo ("lu cuopp’), una schiumarola piccola ("la scummaredda" ), una schiumarola grande ("la cucchiara"), usata anche come colapasta. Entrambe , a forma di paletta concava bucherellata, venivano utilizzate per estrarre da pentole e padelle le vivande ormai cotte.

Non mancavano coltelli di varie misure provenienti dalle coltellerie di Campobasso; tra di questi era sempre presente un coltello dalla lunga lama, necessario per "scannare" il maiale ("lu scannatur").

C’era poi un lungo forchettone di filo di ferro attorcigliato ("lu cacciacarn’"), usato per infilzare e prendere i pezzi di carne dalla brace o dalla pentola. Ovviamente non poteva mancare una grattugia ("La grattacasa"), e cucchiai, forchette e palette di legno costruiti a Carife dai nostri falegnami.

Talora, quando si doveva grattugiare il "cacioricotta" ancora non completamente asciugato, la grattugia veniva riscaldata sul fuoco prima dell’uso, per impedire che il formaggio, necessario ed assolutamente indispensabile per la pasta fatta in casa, durante l’operazione rimanesse attaccato allo strumento.

Sul ripiano del camino ("Lu muridd’"), molti conservavano anche una padella munita di coperchio e di una piccola manovella, necessaria per abbrustolire l’orzo (" abbruscua r’uor’sc’") e il sunnominato macinino ("Lu mac’niedd’").

Nelle case, e non solo in quelle di campagna, talora vivevano anche alcuni animali, che, per così dire, facevano parte della famiglia: conigli e polli fornivano le uova e la carne necessaria, specialmente nei giorni di festa, mentre una capra ed una pecora fornivano, oltre al latte e al formaggio, anche agnelli e capretti da vendere. In molte case era possibile trovare anche un asino o un mulo, utilizzati per andare in campagna e per farvi ritorno la sera.

L’annata agraria dei nostri contadini è stata da sempre scandita da alcuni momenti ed operazioni fondamentali che si ripetevano. Dopo il lungo riposo invernale, già dal mese di marzo, si incominciava a sistemare la vigna e a potare gli ulivi. Seguiva poi la sarchiatura del grano e, nel mese di aprile, la "sfelicatura", ovvero lo sradicamento manuale delle erbacce che infestavano i campi di grano che, accarezzati dal fresco vento di Ponente, ondeggiavano come il mare. Per combattere le erbe infestanti, quali "papagn’", "Làssen’, "gradd’l’, "cardogne", "sciuogl’", "vezz’", "iet’" ecc., ancora non venivano usati i diserbanti, tanto dannosi per l’ambiente e la salute.

Nel frattempo si piantava anche il granone, che bisognava poi zappare e "accauzare" ( rincalzare).

Arrivava finalmente la tanto attesa mietitura e la successiva trebbiatura, che metteva fine all’attesa di andare al mulino per macinare il grano nuovo, visto che quello vecchio finiva molto presto.

Dopo la raccolta del grano era il momento della vendemmia e, subito dopo, della raccolta delle olive.

Nel corso dell’anno, di buon mattino, potevi assistere ad una scena veramente simpatica: preceduta da un ritmico e cadenzato scalpitìo di zoccoli ferrati sul selciato delle vie cittadine un asino, con il padrone già a cavallo, si avviava verso la campagna percorrendo una strada che conosceva ormai a memoria, tanto che si poteva dire che non era il contadino a guidare "la vettura con il pelo" verso il duro lavoro di una nuova giornata, ma era proprio la povera bestia a guidare l’allegra compagnia.

Del curioso corteo facevano parte, quasi sempre, una riluttante capra che, legata con una fune ("la zoca") al basto ("la varda"), si lasciava trascinare seguita da una pecora quasi rassegnata. Pecora e capra belavano il proprio disappunto, perché avevano lasciato a casa i loro piccoli, che avrebbero rivisto e allattato solo a sera.

La maleodorante compagnia era arricchita dalla presenza di un allegro e impertinente cagnolino "da pagliaio", che abbaiava la sua gioia zigzagando davanti a tutti a destra e a sinistra; se incontrava qualche ringhioso cane più grande aveva paura, metteva la coda tra le gambe e si rifugiava al sicuro tra le zampe dell’asino o del mulo. L’allegra brigata era chiusa quasi sempre da una donna che, portando in equilibrio sulla testa una cesta (" la cosc’na"), con le mani sui fianchi, seguiva quasi in disparte.

Spesso, invece della cesta, le donne portavano sulla testa la culla con dentro il bambino piccolo: tra una poppata e l’altra avrebbe sgambettato tutto il giorno nella sua "cunnula" (dal latino "cunulae" ), sistemata all’ombra di un albero, con il rischio di vedere aggirarsi nei paraggi un serpente, attratto dall’odore del latte, che il piccolo portava con sé.

Dallo zinale di lei ("lu sunual’"), tenuto allacciato in vita da una striscia di stoffa, pendeva la lunga e pesante chiave di casa.

A sera quasi inoltrata la stessa scena si ripeteva…al contrario.

Ad andare a cavallo era il più delle volte il poco "cavaliere" e solitamente più acciaccato ed affaticato uomo: alla donna era consentito aggrapparsi alla coda dell’animale e farsi trascinare lungo le salite più ripide, che conducevano verso Carife.

In alcuni momenti dell’anno, specialmente durante la trebbiatura e la raccolta delle olive, il "traffico" di animali e persone era molto più intenso e spesso le "fontane abbeveratoio" dell’Addolorata, delle Fontanelle, dei Fossi, del Giuliano si riempivano e si intasavano di animali in attesa di dissetarsi.

Il segno che in casa si produceva il formaggio veniva dato dalla presenze delle fiscelle di giunco ("fascedd’") e, soprattutto, dal "casiere", una sorta di trabiccolo incannucciato appeso al soffitto, lontano da gatti e topi. Su di esso venivano disposte ad asciugare in bell’ordine profumate pezze di formaggio e di cacio ricotta ("masciottole"). Accanto c’era sempre il maleodorante "quaglio", uno stomaco di capretto nel quale fermentava il latte spesso rabboccato.

Ricordo che noi bambini aspettavano ansiosi la cagliata, perché potevamo mangiare il "siero" tutti insieme in una grossa zuppiera, nella quale, oltre ai pezzi di pane, era possibile "pescare" o catturare a gara qualche saporitissimo pezzetto di formaggio, che nostra madre, magari volutamente, si era lasciato sfuggire: davvero una squisitezza. Ma forse, oltre alla bontà di ciò che mangiavamo, era proprio la fame a far sembrare tutto più saporito, altro che Kinder fetta latte… e merendine varie, omogeneizzati e biscottini Plasmon…

Certo oggi è diventato tutto maledettamente complicato e molti, a incominciare da me, vorrebbero vivere in altro mondo, in un altro tempo, in un altro luogo, magari in un altro corpo, che ci costringe spesso a lunghe attese nei laboratori di analisi, nelle anticamere degli specialisti, a imbottirci di pillole e pasticche, secondo orari scanditi dal suono del promemoria di un telefonino…

Tutto questo a qualcuno potrebbe apparire retorico, decadente, patetico, prosaico ma così è e bisogna farsi coraggio e andare avanti, senza vigliaccherie…e senza facili catastrofismi.

Non avendo ancora nipoti racconto la mia storia, che è in fondo la stessa per molti altri tra di voi, ai figli e ai nipoti dei miei amici e di quanti hanno vissuto quel mondo, nemmeno tanto lontano…

La vita è bella e merita di essere vissuta, anche quando sembra che non ti trovi più a tuo agio e vengono meno i punti fondamentali di riferimento. Te ne accorgi quando vai al cimitero nuovo o a quello vecchio: centinaia di volti noti fin dall’infanzia ti osservano dalle loro lapidi e sembrano dirti: "Prenditela comoda quanto vuoi, ma sappi che qui tutti noi ti stiamo aspettando…"

Le "fascedde" venivano fatte a San Nicola Baronia da parte di artigiani, specialmente donne, che sfruttavano i giunchi che crescevano abbondanti nel vallone che convogliava a valle le acque sorgive delle Bocche e della Fontana del Salice, nelle quali venivano messi a "curare" anche i lupini.

Molti ricorderanno ancora Filomena, una simpatica ed arzilla vecchietta di San Nicola minuta e bassa di statura, che girava per tutti i paesi della Baronia al grido di "Iamm’ a chi vol’ li lupin’, ueee…". Insieme ai lupini portava, bellamente infilate l’una nell’altra, pile di fiscelle che poi rivendeva, accettando in cambio l’ottimo olio da sempre prodotto qui a Carife.

Dopo la sua morte fu il figlio "Stefaniello" a continuare il mestiere della mamma e a girovagare per la Baronia, con sulle spalle una bisaccia. Era un simpaticone, basso di statura come la madre, ed aveva un bel paio di baffetti e due occhietti vispi ed acuti, che ti fissavano e ti leggevano nell’anima.

Sempre da San Nicola provenivano altri che, con asini carichi di verze e ortaggi vari, invitavano con grande garbo i cittadini a comprare i loro genuini e saporiti prodotti.

La vita di noi ragazzi era, per molti aspetti, assai diversa da quella di oggi. Frequentavamo le scuole elementari della Casette Asismiche e del Purgatorio e i ragazzi di campagna andavano a scuola all’Ariacchino e alla Fiumara. Proprio in quest’ultima località, nel "casino" Forgione, il sottoscritto ha frequentato, in una "pluriclasse", i primi tre anni delle Elementari. A Carife la scuola media, preceduta da una scuola di "avviamento", arriverà molto più tardi. Questo tipo di scuola non era obbligatoria: l’avrebbero frequentata, previo il superamento di un esame di ammissione, solo coloro che avrebbero continuato gli studi, allontanandosi e raggiungendo i vari collegi dislocati in Campania; molti finivano in seminario…per rubare gli studi, io finii nell’Istituto Salesiano di Caserta.

Non c’erano né videogiochi, né play station, né campi di calcio, né tutti i passatempi di oggi. Ma soprattutto non c’erano i telefonini… Non disponevamo di spazi personali e di camerette nelle nostre case, non c’erano enciclopedie, trasporto alunni, mensa scolastica, incontri scuola/genitori, che non ci difendevano, prendendo le nostre parti contro gli insegnanti, ecc..

Spesso, per riscaldare l’aula, i maestri ci mandavano in giro con bracieri a raccogliere il fuoco nelle case vicine e se non eravamo preparati su verbi e tabelline volavano bacchettate sulle mani, ci mettevano in ginocchio sui ceci, ci mandavano dietro la lavagna e dopo averci tirato le orecchie, fin quasi a staccarle, ci mettevano quelle… d’asino. A casa poi prendevamo il resto…dai nostri genitori.

Eppure molti, magari studiando a lume di candela perché in campagna mancava la corrente, si sono laureati e si sono fatti onore, occupando posti o rivestendo incarichi di grande responsabilità e prestigio.

Dopo la scuola si facevano i compiti e si scendeva in piazza, dove, quando il tempo era bello, si giocava fino a sera. Tra i giochi più praticati ricordo la "tappa", che consisteva nel dare un colpetto secco con il dito medio, fatto scattare sul pollice, ad un tappo a corona di una bottiglia di birra ("lu cucc’tiedd". Il tappo doveva percorrere il "passetto" (la sommità del muretto di cinta della parte più alta della piazza, sporgente sul fontanile di "sotto le Campane", luogo in cui oggi si trova la canonica. Il tappo non doveva uscire dal percorso e arrivare il più lontano possibile: vinceva chi arrivava primo al traguardo ("la tappa"). A volte il gioco si faceva sugli scalini della chiesa e lungo i cordoncini lisci di pietra inseriti nel selciato della piazza.

Altri giocavano a "tozza muro", ossia a battere contro il muro le monetine metalliche e a cercare di avvicinarle a quelle battute dagli altri , secondo una misura prestabilita e concordata.

Talora, quando le monetine mancavano (e accadeva spesso), lo stesso gioco, invece che con esse, si faceva con i bottoni. Ovviamente le discussioni erano frequenti e molti si giocavano anche i bottoni delle maniche di giacche e cappotti dei genitori e, magari, quelli della propria "vrachetta"…

Un altro gioco molto praticato era quello del cerchio: con una bacchetta di ferro ricurvo in cima si guidava un rumoroso cerchio di ferro.

C’era chi lanciava una trottola di legno con la zagaglia (" lu strumm’l’") cercando di colpire l’altro lanciato da un compagno di gioco, chi dava calci ad una palla fatta con stracci o ad un barattolo e chi scarrozzava lungo le polverose discese dei Fossi su carrozze di legno da noi stessi costruite. Esse si potevano guidare con un "guinzaglio" fissato all’asse anteriore che, girando intorno ad un perno, permetteva di sterzare. Le cadute erano frequenti e dolorose…

Qualcuno giocava a "mazzeuno", cercando di colpire, con una mazza di legno poggiata in una fossetta, un pezzo di legno appuntito alle due estremità, in modo da farlo andare il più lontano possibile. Il gioco si faceva in quattro: due reggevano la mazza, altri due lanciavano il pezzo di legno ("Lu piv’z’"), che una volta colpito andava lontano e permetteva ai due con la mazza di scambiarsi di posto e di contare gli scambi, fino al ritorno del giocatore che era andato a raccoglierlo.

Spesso si giocava a nascondino ("a l’annacquà") o a mosca cieca ( " la ‘atta c’cata") o si facevano altri giochi sempre in gruppo.

Quando era il tempo si organizzavano delle vere e proprie spedizioni punitive di… gruppo verso gli alberi da frutta delle campagne, campi di fave, alberi di fichi, di prugne, di susine ("alec’n’"), di ciliegie, fragole, ecc; quando c’erano i padroni a guardia si girava al largo per raggiungere magari un ciliegio, sulla cui inforcatura era stato messo, a protezione, un bel fascio di pungenti spine: un bel deterrente che comunque non ci scoraggiava…

Le ragazzine, altrove, giocavano a fare le mamme con le bambole di pezza…

Trascorrevano così i nostri giorni più belli e spensierati…e intanto nascevano i primi amori, le prime "cottarelle" e si incominciavano a versare le prime lacrimucce, per una ragazzina con le treccine lunghe e due occhietti assassini, che facevano vibrare il tuo cuore…

Il tempo scorreva lento e i ritmi di vita, come detto in precedenza, erano sicuramente meno concitati, frenetici e caotici di quelli di oggi. Il canto del gallo annunciava l’inizio di una nuova giornata…ma poi anche da noi arrivò, purtroppo, la sveglia…e tutto continuò a cambiare…

Dopo una giornata di duro lavoro nei campi o nel proprio laboratorio o bottega (" la puteha") giungeva finalmente la sera: in un tripudio di voli di "rondinoni", che volando veloci e radendo quasi i tetti delle case, si rincorrevano a stuoli nell’aria, lanciando furiosi e striduli garriti, tra il frinire delle cicale, che ancora continuavano imperterrite a far sentire il loro verso inebriate dal caldo, giungevano le prime ombre della sera…

Ovviamente durante i mesi invernali tutto era diverso: quando c’era la neve, prima ne faceva tanta, noi ragazzi "paravamo la tagliola" per catturare qualche passerotto affamato, che immediatamente veniva spennato e arrostito sui carboni…Fuori ancora non si sentivano le scariche dei fucili a ripetizione dei Napoletani e dei Salernitani, che oggi da prima dell’alba già sparano a tutto ciò che vola, pettirossi e…farfalle compresi.

Sempre quand’era inverno e tutto era bianco si giocava tutti insieme, piccoli e adulti, a palle di neve per i vicoli dei Fossi: che gioia per noi ragazzi vendicarci dei torti e dei soprusi che pensavano di aver subito dagli adulti…

D’estate ci si attardava davanti casa e si rimaneva per qualche ora a godere il fresco e ad ascoltare divertiti i racconti di vita degli anziani, in uno scenario e con stati d’animo assai simili a quelli descritti dal Leopardi ne "Il sabato del villaggio"…

Chi, come me, aveva la fortuna di vivere e di abitare in campagna poteva godere di sensazioni diverse. Si potevano ascoltare i misteriosi e prolungati "chiuuu..chiuuu…" degli "asciuoli" risuonare, riecheggiare e perdersi malinconici nella notte stellata con varie tonalità, mentre migliaia di lucciole, volando sui campi biondeggianti di grano ormai maturo, con le loro tenui intermittenze, ti mettevano nel cuore, nella mente e nell’animo una pace, una serenità ed una tranquillità, che solo la natura sa offrirti, quando con lei riesci a stabilire un rapporto ideale e riesci a perderti nello spettacolo da essa offerto, anche soltanto attraverso un lumicino intermittente che, vagando qua e là, punteggia e rischiara la notte serena… Potevi inoltre ascoltare l’usignuolo che avrebbe cantato tutta la notte.

Poi finalmente, con gli occhi che si chiudevano per il sonno, si andava a letto. Se era d’inverno si spegneva il fuoco con l’acqua, si ricopriva di cenere nel camino un mucchietto di carboni ardenti, necessari per accendere il fuoco il mattino seguente e si raggiungeva il letto, quasi sempre salendo al piano superiore con uno "scalone di legno".

L’arredamento era molto semplice: il letto poggiava su due piedi di ferro su cui erano posate della tavole, un "saccone" ripieno delle spoglie (" scarfuogl’") delle spighe o pannocchie di granoturco e, poggiato su di esso, un materasso ripieno di lana di pecora. Saccone e materasso erano muniti di "tasche" attraverso cui si inserivano le mani o una forcella di legno ("la furcedda"), per risistemare il contenuto e ridistribuirlo nelle parti in cui mancava o si era spostato durante la notte.

Poi arrivarono le reti a molla ("li sbringh") ed anche i mal di schiena; in compenso diminuì la polvere che si sollevava quando si rifaceva il letto…

Nella camera da letto, dove spesso dormiva tutta la famiglia, c’erano un comò, un armadio ed una cassa in cui era riposti il corredo delle nostre mamme e quello in preparazione delle nostre sorelle, oltre ai pochi vestiti ed indumenti di cui si disponeva.

Solitamente appese ad un muro, tramite il tacco che poggiava su di un chiodo, c’erano poche paia di scarpe per la festa.

Non potevano mancare ai lati del letto due comodini ("colonnette"), nei quali trovava spesso posto anche il vaso da notte, chiamato molto espressivamente "pisciaturo", quando non veniva posato sotto il letto. Esso, dopo una notte di "bisogni" e "bisognini", di buon mattino veniva svuotato nella strada e nei vicoli e dovevi stare attento a qualche…maleodorante bagno fuori stagione, se per caso ti trovavi a passare da quelle parti. Talora veniva svuotato nella neve e…"a la spenta r’ la neva assev’n’ r’ stronz’).

Di buon mattino potevi anche notare un andirivieni di persone, soprattutto di sesso maschile, che con un pezzo di giornale in tasca si recavano, con una certa urgenza a fare i propri bisogni in determinati posti del paese (alle "Lavanghe", Al "Cerzone", Al Giuliano, sotto il Piano dei Cavalieri, ai Fossi, ecc.). Se il bisogno era impellente non potevi certo attardarti a parlare con le persone che incontravi; ognuno frequentava quasi sempre lo stesso posto, stando ben attento a non mettere il piede nei resti del mattino precedente…

Talora non c’era la carta, ma l’erba e le foglie non mancavano. Si racconta che un suonatore di una banda, venuta a Carife in occasione di una festa, si recò sotto le Lavanghe per una sua impellente necessità corporale e si pulì con dell’erba raccolta al buio sul posto: scoprì a sue spese che a Carife c’era persino "l’erba che brucia il c…" e cioè le ortiche…

Un uomo soprannominato "Forlì" soleva dire che in casa sua non mancava proprio niente, perché c’erano perfino…i topi.

Appesi alle pareti e a capo del letto c’erano quadri in cui erano rappresentati soggetti religiosi (Sacra famiglia, Cuore di Gesù, Cuore di Maria, ecc.) e non mancavano gli ingrandimenti formato quadro delle foto degli antenati o dei mariti e dei figli in guerra o emigrati.

Quando si andava a letto ci si addormentava quasi subito; nel dormiveglia giungevano fino a te, e ti facevano sobbalzare, i versi inquietanti di una civetta, i furiosi latrati dei cani, i miagolii raccapriccianti dei gatti nella stagione degli amori, il raglio di un asino, i passi di un ubriaco che si ritirava da una delle cantine, dove aveva giocato fino a tardi a "padrone e sotto" ( Carmela "La Bambola", ‘Ngiulina "La Penta"…), vociando e discutendo.

Era anche possibile sentire le fornaie (soprattutto "Capa r’ Pica" e la "Sciusciara"), che giravano molto presto di mattino per "ordinare" a chi si era prenotato per fare il pane di "scanare", ovvero di preparare le panelle, perché il forno era pronto.

Chi viveva in campagna poteva ascoltare invece un concerto formato dal gracidare di rane e rospi proveniente dal vicino fiume, del quale si poteva udire anche il rumore dell’acqua che vi scorreva, il cri-cri di diecine di grilli, il rumore di uno dei pochi trattori che arava, quello lontano di una trebbia, che macinava le "gregne"fino a notte inoltrata.

D’inverno in paese si udiva spesso il rumore del vento che investiva la cima della nostra montagna e quando "sentivi" che stava per nevicare già pensavi alla tagliola e alle battaglie…di palle di neve, ti rannicchiavi nelle coperte, ti coprivi anche la testa e dormivi beato.

Oggi, ai primi fiocchi di neve, si pensa: "Che bello! Domani non andrò a scuola". Tanto i genitori ci difendono, ci spalleggiano, ci proteggono e…diventano complici delle nostre marachelle e dei nostri "filoni" alla prima occasione…

Talora, pur non essendo dei piccoli Pascoli, ascoltavamo lo scricchiolio prodotto dai tarli che rodevano il legno dei mobili.

Mio nonno poi mi raccontava che ai suoi tempi (era nato il 31 gennaio 1876) si mettevano delle bacinelle colme d’acqua sotto i piedi del letto, per impedire alle cimici presenti nella stanza di raggiungere chi dormiva nel letto e che cimici, pulci e pidocchi sparirono quando gli Americani, durante la Seconda guerra mondiale, portarono in Italia il "flit" e il DDT, che in seguito furono considerati addirittura cancerogeni.

I genitori angosciati non si rivoltavano continuamente nel letto, su un cuscino che sembrava fatto di spine, in attesa che i figli tornassero all’alba da una discoteca, forse ubriachi o drogati, e il cuore non sobbalzava nel petto e non arrivava in gola, quando improvviso giungeva alle orecchie il suono di in’ambulanza o quello orribile di un claxon, il rombo del motore di una moto di grossa cilindrata o la sgommata di una macchina, il rumore di una violenta frenata seguita da uno schianto, il frastuono di uno stereo a tutto volume.

Insomma quelli erano altri tempi…