sabato 9 aprile 2016

BREVE STORIA DI SANTOMENNA ( anche in inglese a vantaggio dei figli dei nostri emigranti) tratta dal mio libro


                            
 Brevi cenni storici            BRIEF HISTORY
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Santomenna, che si erge su un crinale a 540 metri sul mare, ai limiti della provincia di Salerno, stupisce chi lo visita per la posizione paesaggistica montana di notevole fascino oltre che per la sequela di chiese che, prima del terremoto del 1980, si snodavano dall’entrata del paese fin su al Convento: per trovare una giustificazione all’abbondare di luoghi sacri, sproporzionato alla popolazione, bisogna risalire alle origini di questo paese .

Sebbene si abbiano testimonianze che la valle del Sele fu abitata secoli avanti Cristo, non vi è prova diretta di insediamenti nel territorio dell’attuale paese, né si conosce un toponimo precedente all’attuale.
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Santomenna stands on a ridge 540 meters above the sea-level, at the edge of the province of Salerno. It provides a stunning sight thanks to it mountain location of considerable charm and the churches that before the 1980 earthquake were scattered in the village. To find a justification for the multitude of sacred places, disproportionate to the relatively small population, one must understand the history of the village.

Although there is evidence that the river Sele valley was inhabited centuries BC, there is no direct evidence of settlements in Santomenna itself, or of any other names prior to the current one.
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Pare che Santomenna si sviluppò e nacque ufficialmente attorno all’860 dopo Cristo nelle immediate vicinanze del Convento dei monaci Benedettini a cui i conquistatori Longobardi donarono queste terre. La presenza dei frati Benedettini e del loro convento attirò una quantità di gente che gravitava intorno al convento (in cerca di lavoro e di protezione dall’invasioni barbariche), espletando le mansioni necessarie allo sviluppo della comunità.
Questo insediamento assunse il nome di San Menna, santo venerato in loco, un santo (Menas), non dimentichiamolo, egiziano ed il cui culto fu probabilmente introdotto dai monaci Basiliani arrivati

anche a Santomenna, intorno al VI secolo d.c., al seguito dei Bizantini, quando questi sottrassero l’Italia ai Goti.

 ( Il ritrovamento di alcuni materiali ceramici databili al V-IV sec. a.C. trovati all’Abetina e a l’Aulecina testimoniano presenze umane nel periodo greco, lucano e romano.

Sicuramente in epoca Romana molti paesi sorgevano lungo una strada antica che dalla Sella di Conza (Appia) costeggiando le montagne arrivava sino a Polla (Popilia).
Da qui partiva anche “la via della Seta”)
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Santomenna was apparently born around 860 AD near the Convent of Benedictine monks who received these lands as a donation from the Lombards. The Benedictine monks and their convent attracted to the village a number of people, seeking jobs and protection from the Barbarians.

The settlement was named after San Menna, an Egyptian saint whose cult was probably introduced by Basilian monks arrived around the sixth century A.D., following the Byzantines, who ruled Italy after the Goths.

(The discovery of ceramics dating back to the IV-V century BC in the Abetina and Aulecina areas testifies the existence of settlements in the area in the Greek, Lucan and Roman time. For sure in Roman times many villages stood along an ancient road that from Sella di Conza reaching up to Polla (Popilia) along the mountains. The "Silk Route” is also though to start from here.

 
Come già accennato, non si conosce un toponimo precedente, anche se ci sono testimonianze dell’esistenza di un borgo molto più antico. Certo è che, quando i Benedettini soppiantarono i Basiliani, trovarono una comunità rurale la cui sussistenza era legata alla vita del Monastero. La presenza dei monaci continuò fino al terremoto del ‘990 quando, crollato il convento, i monaci, anche a causa di numerose incursioni Saracene, lasciarono l’insediamento.

Nel 1200 Santomenna divenne feudo del vescovo di Conza, perciò vide sorgere un palazzo vescovile, successivamente ampliato, poiché il vescovo decise di creare nel paese una delle sue dimore (Seminario) per sfuggire i rigori del clima conzano. Un’altra residenza fu stabilita nel casale di S. Andrea di Conza che ha funzionato sino ai giorni nostri come Seminario. Di seguito la copia dell’editto di riapertura avvenuta poi nel 1888/89.

 (  I Goti, di origine germanica, in zona, ebbero duri scontri con i Bizantini, rappresentanti dell’impero romano d’Oriente che riuscirono a prendere il potere per poco, in quanto nel 568 un altro popolo germanico, i Longobardi, si insediò, nell’Italia meridionale, con il Ducato di Benevento (570-71 d.c.). Il Ducato venne suddiviso in Distretti, ognuno amministrato da un governatore chiamato “Gastaldo” e, solo successivamente “Conte”: da cui “gastaldati” e “contee”. I terreni di Conza, verosimilmente, costituirono un “gastaldato”. Proprio da Conza, nell’839 d.c., partirono dei congiurati che riuscirono ad ottenere la scissione del grande Ducato di Benevento in tre principati minori: Benevento, Capua e Salerno (Citra) che negli anni successivi si combatterono tra loro. Santomenna fu compreso nel Principato di Citra o Citeriore che aveva i suoi confini al di là di Conza, verso Frigento)

 As mentioned earlier, we do not know any names prior to Santomenna. However, there is evidence of the existence of a much older village. Certainly, when the Benedictine supplanted the Basilian they found a rural community whose livelihood was linked to the life of the Monastery. The presence of monks continued until the 990 earthquake, when following the collapse of the monastery, and due to many Saracen raids, the monks left the settlement.

In 1200 Santomenna became part of the manor of the bishop of Conza, and the bishop palace was consequently built. The building was later expanded, since the bishop decided to create in the village one of its chambers (Seminar) to escape the cold weather in Conza. Another residence was established in Sant’Andrea di Conza, that is still operating as a Seminar. Below a copy of the edict for the reopening, which occurred in 1888/89.
 

(The Goths, of Germanic origin had violent clashes with the Byzantines, representatives of the Roman Empire of the East who managed to hold the power for only a short time, as in 568 another Germanic people, the Lombards, settled in southern Italy, in the Duchy of Benevento (570-71 AD).  The Duchy was divided into districts, each administered by a governor called "Gastaldo" or, later on, "Count”. From Conza, in 839 AD, left the conspirators who managed to split of the large Duchy of Benevento in three minor principalities: Benevento, Salerno and Capua (Citra). Santomenna was included in the Principality of Citra that had its boundaries beyond Conza, towards Frigento)


Nel medioevo Santomenna ebbe notevole importanza politico-amministrativa nell’alta valle del Sele, in quanto sede di un tribunale civile ed amministrativo e di un seminario diocesano.

Purtroppo l’episcopio, centro della vita della comunità, fu fortemente danneggiato dal terremoto del 1561. Nel 1582 sulle rovine del monastero benedettino sorse il convento dei cappuccini, con una chiesa intitolata anche a S. Francesco. Il palazzo vescovile venne invece ricostruito dall’arcivescovo Paolo Carovita nel 1675.

Nel 1647, intanto, l’arcivescovo Ercole Rangone, modenese, aveva provveduto ad ampliare la Chiesa madre. Sia Ercole Rangone che Paolo Carovita vennero sepolti nel convento che a sua volta venne ampliato nel 1729 da Padre Battista De’ Ruggeri.


In medieval time Santomenna had considerable political and administrative relevance, having a civil and administrative court as well as a seminary.

Unfortunately the bishop palace, that was the centre of the community life, was severely damaged by the earthquake in 1561. In 1582 from the ruins of the Benedictine monastery arose a Capuchin monastery, with a church dedicated to St. Francis. The episcopal palace was rebuilt by the Archbishop Paolo Carovita in 1675.

In 1647, meanwhile, the Archbishop Ercole Rangone expanded the main church. Both Ercole Rangone and Paolo Carovita were buried in the monastery which was expanded in 1729 by Father Battista De 'Ruggeri.

Alla fine del diciassettesimo secolo il vescovo teatino Gaetano Caracciolo  ampliò anche il palazzo vescovile e costruì la chiesa di San Gaetano e diede nuovo lustro al paese tenendo nel piccolo

centro due sinodi Diocesani.

Nel periodo napoleonico Santomenna, a seguito della scissione del principato di Citra, fu annessa al distretto di Campagna. Nello stesso periodo, venne chiuso il convento dei Cappuccini e fu abbandonato il palazzo vescovile (episcopio) di Santomenna che venne infine destinato a sede municipale.

Venuta meno l’antica struttura ecclesiale, le diocesi furono ridimensionate e quella di Campagna passò sotto l’amministrazione dell’arcivescovo di Conza, che si stabilì a Campagna. Di conseguenza l’episcopio di Santomenna decadde dal suo ruolo e l’importanza religiosa del paese andò scemando.

 At the end of the seventeenth century the Bishop Gaetano Caracciolo expanded also the Episcopal Palace, built the church of San Gaetano and revamped the village keeping two Diocesan synods.

In the Napoleonic period, following the split of the Principality of Citra, Santomenna was annexed to the district of Campagna. At the same time, the Capuchin convent was shut and the Episcopal palace was abandoned. Santomenna ultimately became a municipal seat.

After the failure of the ancient ecclesial structure, the dioceses were resized and Campagna was put under the administration of the Archbishop of Conza, who settled in Campagna. Consequently the religious importance of the village went diminishing.

 Quando nel 1860, Garibaldi giunse a cavallo ad Eboli, una squadra di garibaldini venne ad occupare anche l’alta valle del Sele. Nel 1880 un Regio Decreto di Umberto I autorizzò il cambio del nome

da Santa Menna a Santomenna.

Nel 1886 venne soppresso definitivamente il Convento dei Cappuccini.

(Alcuni testimoni riferiscono di aver sentito dire che l’ultimo monaco ha abbandonato il Convento agli inizi degli anni venti.).

Dopo l’unificazione, i paesi a sinistra del Sele, tra cui Santomenna, furono aggregati alla diocesi di Salerno e, nel 1921, passarono alla diocesi di Campagna, nuovamente autonoma. Nel frattempo grossi mutamenti si avvertirono nell’assetto socio economico del paese che visse in modo drammatico la crisi che, dall’inizio del ¢900, portò all’abbandono dei centri minori e diede il via all’esodo migratorio che spopolò anche Santomenna.

In 1860, when Garibaldi came riding to Eboli, a team of partisans came to occupy the valley of the Sele river. In 1880 a Royal Decree of Umberto I authorized the name change from Santa Menna to Santomenna.

In 1886 the Capuchin Convent was finally shut down. (However, some witnesses report that the last monk abandoned the convent in the early twenties).

After the unification, the villages on the left of the Sele river, including Santomenna, were aggregated to the diocese of Salerno and, in 1921, to the diocese of Campagna. Meanwhile big social and economic changes occurred. Santomenna was dramatically hit by the crisis that at the beginning of 1900 led to the desertion of small settlements and to the migration that depopulated also Santomenna.

 

Come vedremo nell’apposito capitolo, l’alta valle del Sele, alla fine della seconda guerra (1943) fu teatro della ritirata dei tedeschi che avvenne sotto un martellante bombardamento degli Anglo-Americani.

Vari terremoti hanno segnato la storia di questo paese che comunque, anche dopo quello devastante dell’1980, ha sempre orgogliosamente rialzato il capo e messo in campo tutte le energie per ritrovare, tra tante difficoltà, l’identità di comunità provata ma non spezzata.

 At the end of WW2 (1943) the river Sele valley was the scene of the German retreat that occurred under a pounding bombardment of the Anglo-Americans army.

Several earthquakes have marked the history of this village. Even after the devastating 1980 earthquake, Santomenna has proudly raised his head and proven that the hearth of the community is still beating strong.
 



 

 

domenica 28 dicembre 2014

Jazz nella Congrega di Santomenna

 

Domenica 28 Dicembre - ore 18;00 ‪#Jazz‬ al borgo antico (1ª ed. invernale):  Duo in Jazz con Alberto Della Monica al sax e Marco De Gennaro al piano  nella splenida cornice della settecentesca "Congregazione dell’Immacolata Concezione"

 Un'iniziativa lodevole.
Un utilizzo intelligente della Congrega, un luogo caro ai sammennesi, da me più volte auspicato.
Per la gioia di vedere ancora vivo ( a pensare che veniva utilizzato quasi esclusivamente per salutare i nostri morti !!) questa luogo ricco di bellissimi affreschi propongo alcune foto ed il capitolo dedicato ai luoghi sacri nel libro "Santomenna: sui sentieri della memoria"
 
Approfondimento: i luoghi Sacri ( dal libro Santomenna: sui sentieri della memoria)

 
Oltre al Convento, la Chiesa dell’Annunziata e di S. Lucia si ricordano anche:
ÿ        La Chiesa Santa Maria delle Grazie il cui primo impianto, a tre navate, risale probabilmente al XIV secolo, ma che, a causa dei terremoti, ha subito numerosi rifacimento: il primo nel 1575, commissionato dall’arcivescovo di Conza, mons. Marco Antonio Pescara. Il soffitto (stucchi e pitture), di stile barocco, fu fatto decorare nel 1647 dal vescovo Ercole Rangone. Oltre a delle tele del pittore Miglionico (seicento) vi è una bella acquasantiera del ‘600 e, di grande rilievo, la vecchia cupola che, nel 1917, venne ricoperta di piombo. Nel 1929 la pavimentazione venne rivestita con marmi di Carrara e nel 1950 venne rifatta la facciata. Nel 1978 furono eseguiti dei lavori di restauro e l’interno venne decorato con oro zecchino dal pittore Rocco Pennino di Avellino. Nel 1980 la chiesa subì ingenti danni e la cupola, dopo alcuni mesi, fu abbattuta. L ’unica testimonianza esistente dell’antico complesso religioso è il campanile, che si riuscì a salvare grazie alla caparbietà dei cittadini che non vollero venisse abbattuto dopo il terremoto.
ÿ       La Chiesa della Congregazione dell’Immacolata Concezione eretta ai primi del ‘700 e portata a compimento soltanto nel 1730 per iniziativa della Confraternita dell’Immacolata Concezione, che annoverava tra gli iscritti i nobili del paese. L’edificio è costituito da un´unica navata, conclusa da un’abside riccamente decorata a rilievo, sormontata da un baldacchino retto da angeli. Nella nicchia centrale vi è la statua dell’Immacolata risalente al 1736 ad opera dello scultore Gennaro Franzese.
Tra gli arredi riveste particolare interesse la cantoria settecentesca in legno scolpito. La costruzione dell’organo, invece, risale al 1754-55 ad opera di Francesco Mancieri di S. Rufo. L’altare maggiore, del 1739, fu costruito in pietra locale. Nella sagrestia vi è un grande dipinto su tela, raffigurante la Vergine Immacolata, eseguito dal pittore Carmine Carbutti nel 1779. Quattordici stazioni della Via Crucis, dipinte nel 1769 da Carmine Carbutti, sono distribuite lungo la pareti laterali. Vi é anche un “lavatino” in pietra eseguito nel 1747 da Carmine Trotta e un’acquasantiera del 1753, opera degli artigiani Lanzetta e Scudise.
Nel libro “La Congregazione dell’Immacolata Concezione in Santomenna” si parla della “congrega “fondata nei primi del ‘700 (nel 1730 aveva ottenuto la benedizione pontificia) che aveva il compito di governare la congregazione secondo un regolamento rigido, datato 1777, con assenso Regio.
 
La congrega, che aveva il compito principale di  “promuovere la Gloria di Dio e di Maria Santissima e per lo sviluppo delle loro anime”, tra gli iscritti ha avuto molti componenti delle famiglie nobili locali come i De Ruggieri, Figurelli, Zuccai, Rosamela, ecc.
 Io stesso ricordo come ultimo priore Francesco Calabrese (P’lican’) ben coadiuvato da Peppino Zambella. Nel 1931 la confraternita, di cui l’unico mio ricordo si riferisce alle austere funzioni funebri, passò alla dipendenza delle autorità ecclesiastiche. In seguito alle nuove norme emanate dal Concilio Vaticano II la confraternita venne nuovamente eretta canonicamente dal vescovo di Campagna mons. Iolando Nuzzi nel 1967.
 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

sabato 27 settembre 2014

S. Menna e Verona: un legame a me sconosciuto

 
Sono rimasto alquanto sorpreso quando in questi giorni recandomi a vedere la mostra delle opere del pittore Paolo Caliari il Veronese-
Una mostra delle maggiori opere  del pittore veronese del 1500:  provenienti dai migliori musei e collezioni private-
Ad un certo punto, di scatto, mi sono fermato avanti al dipinto di S.Menna.



 
 
Un’opera del  1560 circa, 247×122 cm, olio su tela di notevole valore artistico

Pensare che quel dipinto, solo a Verona, è stato ammirato da migliaia di visitatori mi ha emozionato-

I! Veronese, riportava la didascalia, dipinse sul davanti dell'organo di S. Geminiano i vescovi S. Geminiallo e S. Seve ro) e, nel di dentro, nelle solite nicchie, S. Menna cavaliere e San Giovanni Battista.

Ne ho parlato già nel mio libro ( Santomenna: sui sentieri della memoria)  ma del Santo che anche noi festeggiamo l’11 novembre ( quest’anno si spera con la statua rimessa a nuovo) , data la bella occasione, riporto di seguito ciò che ha scritto Fabio Arduino

 Nonostante la sua figura sia storicamente discussa, Menna è tuttora il santo più popolare in Egitto. Sul suo sepolcro si sviluppò una città (in arabo Karm Abu Mina), detta per i miracoli «la Lourdes paleocristiana». Secondo alcune fonti fu un militare del III secolo, che rinunciò alla carriera per farsi eremita e fu martirizzato sotto Diocleziano. Per altre in Egitto arrivarono le reliquie di un martire della Frigia (Turchia). Altre ancora lo ritengono del secolo IX.

Un santo omonimo, eremita del VI secolo, si festeggia, sempre oggi, a Sant’Agata dei Goti, nel Sannio. (Avvenire)

 Patronato: Pellegrini, Mercanti, Carovanieri del deserto

 Emblema: Cammello, palma

 Martirologio Romano: Oltre il lago Mareotide in Egitto, san Menna, martire.

 Martirologio tradizionale (11 novembre): A Cotieo, nella Frigia, la memorabile passione di san Menna, soldato Egiziano, il quale, nella persecuzione di Diocleziano, dopo che, rinunziata la milizia, meritò di militare col Re celeste in segreta conversazione nella solitudine, si mostrò in pubblico, e, dichiarandosi ad alta voce Cristiano, prima fu provato con crudeli supplizi; da ultimo, mentre genuflesso pregava, rendendo grazie al Signore Gesù Cristo, fu percosso colla spada, e dopo morte rifulse per molti miracoli.

 Il culto di San Menna è assai antico, purtroppo non supportato da provi storiche, ma la sua esistenza pare non essere messa in dubbio. La sua storia originale è andata persa e fu riscritta successivamente sfruttandone un’altra, forse quella del martire San Gordio. Essendo stata inoltre arricchita di ulteriori dettagli fantasiosi nel corso di generazioni, risulta impossibile ricavare da tale racconto la realtà dei fatti. Tra le poche cose che si possono affermare con certezza sul suo conto è che fosse egiziano e nella patria fu martirizzato e sepolto. Assai più ricca di dettagli è invece la leggenda, secondo la quale fu soldato nell’esercito romano e fu colto dallo scoppio della persecuzione indetta da Diocleziano quando era in servizio militare a Cotyaeum in Frigia. Decise dunque di lasciare l’esercito ed intraprese una vita di preghiera ed austerità come eremita fra le montagne. Un giorno entrò nell’anfiteatro di Cotyaeum durante i giochi dichiarandosi cristiano, fu immediatamente arrestato ed il presidente del tribunale ordinò di torturarlo e decapitarlo.

 Le sue spoglie mortali furono riportate in Egitto ove ricevettero sepoltura. Sulla tomba si verificarono non pochi miracoli ed il suo culto, quale santo guerriero, si estese in tutto l’Oriente. Alcune chiese furono edificate in suo onore, anche a Cotyaeum. Il sepolcro costruito sulla sua tomba del santo a Bumma (Karm Abu-Mina), nei pressi di Alessandria d’Egitto, fu una frequentatissima meta di pellegrinaggi sino all’invasione araba del VII secolo. Tra il 1905 ed il 1908 furono scoperte le rovine di una basilica, un monastero, delle terme ed anche alcune piccole fiale con l’iscrizione “Ricordo di San Menna”, tutto ciò a testimoniare l’antico culto tributatogli. Le fiale erano utilizzate per attingere acqua da un pozzo attiguo al reliquiario. Fiale simili, ritrovate in Africa ed Europa, pare fossero utilizzate per custodire l’olio di San Menna prelevato dalle lampade della basilica del santo. Nel 1943 il patriarca ortodosso alessandrino Cristoforo II attribuì a San Menna la sconfitta dell’esercito di Rommel ad El Alamein e la conseguente salvezza dell’Egitto, proponendo di restaurare il diroccato sacrario del santo in memoria dei caduti in battaglia. San Menna è particolarmente invocato per ritrovare gli oggetti smarriti.

sabato 5 luglio 2014

TARGA EMIGRANTI: I RINGRAZIAMENTI DEL SINDACO

foto di Massimiliano Voza.
 

Stamane, alla deposizione del bassorilievo creato in ricordo degli emigranti, donato dal comitato per la raccolta fondi del libro "Santomenna, sui sentieri dell...a memoria" del nostre illustre concittadino prof. Andrea Salandra.
Un ringraziamento speciale ai componenti del comitato: Filomena Calabrese, Annamaria Di Gianni, Michele Di Geronimo e Davide Calabrese. Avanti così: a Santomenna serve chi ci mette impegno!
Un pensiero speciale ai nostri emigrati che hanno dovuto, con sudore e spirito di abnegazione ricominciare la loro vita altrove, come recita l'iscrizione, "con nel cuore il loro paese natio-


 

domenica 29 giugno 2014

OMAGGIO AGLI EMIGRANTI: per loro una targa realizzata con una parte dei contributi raccolti

Ai numerosi emigranti che seguono questo blog raccomando di leggere questo post sino in fondo

 
Quest' opera in terracotta, raffigurante persone che, in procinto di emigrare in cerca di lavoro, salutano affrante i parenti, è stata ideata dall’artista veronese Maria Manzini ( con me nella foto)
E’ una scena che indubbiamente a Santomenna, paese di emigranti per antonomasia, si è ripetuta cento, mille volte e che ha visto come protagonisti numerosi conterranei che, sin dagli albori dell’autonomia comunale, si mossero dal loro luogo di origine per trovare lavoro, studiare e ottenere, altrove, soddisfazioni personali e familiari: tra questi i giovani non ancora ventenni che ebbero il coraggio di andare ad esplorare il mondo oltre alle montagne di Calabritto.
 

A ridosso delle festività di luglio, un evento che riunisce idealmente i sammennesi del mondo, Santomenna ringrazia i suoi figli costretti a realizzare il proprio destino “in giro per il mondo” e che hanno comunque conservato nel cuore l’amore per il loro paesello. Anche grazie al loro sacrificio, dopo gli anni sessanta, in Italia raggiungemmo un progresso economico inaspettato.
Un giusto omaggio ai tanti emigranti che, con particolare entusiasmo, hanno richiesto il mio libro ed hanno inviato il loro contributo e, soprattutto, al sacrificio cui sono andati incontro.

Quest'anno non sono riuscito a realizzare l’idea di affiancare all’inaugurazione della targa un Convegno sull’emigrazione. Il mio auspicio è che in futuro qualcuno si adoperi per istituire anche una festa dell’emigrante: è giusto che le future generazioni non dimentichino.

In mancanza del Convegno intendo comunque proporre alla lettura dei frequentatori blog www.santomenna.blogspot.com il capitolo che il mio libro ha voluto dedicare all’argomento.
Oltre ad alcuni dati, numerose testimonianze dirette molto toccanti: tra queste quelle di Felice Venutolo, Alfonso Figurelli, Mario e Michele Di Martino, Maria Calabrese, Luigi Salvatore (1) e Rocco Di Martino oltre ad alcune storie tra cui quelle di Frank Carlucci e Peter Toby Fegorello.
(1) sul libro più volte indicato, erroneamente, con il nome di Luigi Piserchia

Grazie all’interessamento diretto del Sindaco Massimiliano Voza, la targa è stata collocata su una parete della Casa municipale “sotto a la Chiesa”, zona molto cara ai sammennesi.

Oltre al Sindaco e don Peppino Zarra voglio ringraziare ancora una volta il Comitato ( Filomena Calabrese, Annamaria Di Gianni, Michele Di Geronimo e Davide Calabrese) che, con pazienza, mi ha sostenuto e assieme a me ha accettato il rischio di esporsi alle critiche.

Grazie a tutti i titolari delle attività produttive locali ed in modo particolare ai responsabli della Opus et Vita, all' impresa edile Di Geronimo, alla C.M.C. e alla Rotostampa di Lioni che, assieme al Comune di Santomenna, hanno coperto buona parte delle spese di stampa del libro.

L'aiuto di tante altre persone (molte residenti all'estero o comunque fuori Santomenna) ci ha consentito di raccogliere i fondi necessari a realizzare questa targa e provvedere al restauro della statua di S.Menna che sarà pronta a novembre.
La mia soddisfazione e quella del Comitato è di aver mantenuto fede all'impegno iniziale: abbiamo utilizzato del nostro tempo per "dare" qualcosa alla nostra comunità.

Sono rimaste ancora alcune copie del libro che potrebbero essere riservate ad una ulteriore raccolta di fondi per dotare il nostro piccolo paese di un defibrillatore: uno strumento salvavita di estrema importanza. E' auspicabile che qualche gruppo di giovani residenti si attivi in questo senso e dia anche la disponibilità ad imparare l'uso del defibrillatore.

Santomenna, 29 giugno 2014
Andrea Salandra




L'emigrazione italiana nel Novecento [1]

Andare oggi a ricercare le radici del nostro paese significa raccogliere, prima di tutto, le testimonianze degli emigranti: un doveroso omaggio al loro sacrificio e a chi, lasciando la famiglia e gli affetti, ha cercato altrove il riscatto di una vita di miserie e privazioni e che, più di ogni altro, ritengo, sia depositario delle memorie più genuine e meno inquinate.

Prima di lasciar spazio alle esperienze dirette di alcuni emigranti, vorrei ripercorrere brevemente i momenti salienti del movimento migratorio dall’Italia.

 Possiamo suddividere il fenomeno dell’emigrazione in quattro fasi:

dal 1876 al 1900; [2]

dal 1900 alla prima guerra mondiale;

 tra le due guerre;

dal dopoguerra agli anni ‘60/’70.

Nel nostro Sud il fenomeno migratorio fu più sostenuto che altrove, per le asperità del territorio, per il brigantaggio[3], ed anche per i meccanismi della successione.

Come è noto i beni erano per lo più riservati al figlio maggiore e, nella quasi totalità dei casi, ai maschi e solo i grossi latifondisti aprivano le eredità alle femmine.

Fu la legislazione del Codice Civile piemontese ad imporre due possibilità: egualitarismo integrale o divisibilità dell’asse ereditario in due parti uguali (“quota legittima”, da ripartire tra tutti i figli, e “quota disponibile”, alla discrezione del proprietario).

Nonostante un maggior principio di equità e tutti i disperati tentativi della popolazione contadina (matrimoni tra consanguinei, uso della “quota disponibile”), per evitare le conseguenze della nuova legge, ne risultò un ulteriore frazionamento delle proprietà in microfondi, spesso insufficienti alla stessa sopravvivenza.

Anche a Santomenna la suddivisione in piccole proprietà accentuò lo stato di miseria e l’alternativa alla “fame”, dunque, fu costituita dall’emigrazione. In questo contesto di crisi economica, superate le resistenze personali e scelta la destinazione, il problema più grave, per l’aspirante emigrante, rimaneva reperire i fondi necessari a pagare un biglietto ed a finanziare il primo periodo di soggiorno all’estero. La soluzione più comune era la cessione del microfondo di proprietà o in alternativa, degli attrezzi o del bestiame. Non mancarono, anche a Santomenna, i casi di ricorso all’usura, con tassi d’interesse assolutamente esosi. Nel caso di famiglia numerosa era l’intera comunità familiare a selezionare i figli più adatti al lavoro all’estero, più spesso toccava al solo capofamiglia attraversare l’Atlantico o il Pacifico per prendere il controllo della situazione, prima di richiamare a sé la moglie ed eventuali figli. Spesso, la donna che rimaneva, veniva affidata alle cure dei familiari del marito che esercitavano un forte controllo sulle attività della sposa: molte volte, però, adulteri, aborti e nascite illegittime mettevano a dura prova la solidità della famiglia. Tuttavia, in molti casi, il rapporto tra i coniugi si fece più stretto, visto che la moglie divenne la custode del bilancio familiare, alimentato dalle rimesse. L’esperienza migratoria italiana si compì sostanzialmente nei 100 anni compresi tra il 1876 (in effetti da quando si incominciò a contarli) ed il 1976 (quando gli arrivi degli stranieri sono diventati superiori alle partenze) e seguì, grossomodo, il seguente andamento.

La prima fase (1876-1900) fu caratterizzata da movimenti totalmente spontanei, quando non clandestini: in questo quarto di secolo dall’Italia più di cinquemilioni di persone, prevalentemente uomini (81%) di età medio bassa e di provenienza per lo più contadina, raggiunsero inizialmente le mete europee, all’inizio (Francia, Germania) e, successivamente, quelle extraeuropee, in crescita a fine secolo (Argentina, Venezuela, Brasile, Stati Uniti).

In questa prima fase, e più precisamente nel 1892, partì anche il nonno del più famoso dei nostri emigranti Frank Carlucci I.

La seconda fase (1901-1915), pur coincidendo con la crescita dell’industrializzazione italiana, fu detta “grande emigrazione“, proprio per l’incapacità del nostro sviluppo, non intenso né uniforme, di assorbire la manodopera eccedente.

L’ emigrazione del periodo fu largamente extraeuropea: il 45% degli emigranti (prevalentemente meridionali) espatriò in America.

La terza fase (tra le due guerre) coincise con un brusco calo delle partenze: vi contribuirono dapprima le restrizioni legislative adottate da alcuni Stati (in particolare gli USA, con le “quote”) e in secondo luogo, la tendenza statalista e dirigista scaturita, a partire dal 1921, in seguito a conferenze internazionali (tenute a Roma) per disciplinare i flussi. Non secondaria fu la politica fortemente restrittiva attuata dal fascismo per motivi di prestigio (l’“immagine negativa” fornita dalle torme di partenti) e di potenziamento bellico (trattenendo molte giovani leve da impiegare per scopi militari); per ultimo si ricorda il peso della crisi economica degli anni ’20 (specie quella del ’29). L’ emigrazione, alimentata anche dai numerosi espatri oltralpe degli oppositori politici del fascismo (specialmente comunisti), si diresse soprattutto verso la Francia e verso la Germania negli anni ’30, in particolare dopo la firma del “Patto d’Acciaio”.

Dal 1920 al 1940, emigrarono poco più di tremilioni di persone, destinate a supplire alla deficienza francese e tedesca di manodopera nazionale in agricoltura, edilizia, industria.

Nella quarta e ultima fase (1945-1970 ca.) l’Italia è tornata a fornire consistenti flussi, circa 7 milioni di espatri. I cambiamenti politici ed economici del Paese, però, hanno alimentato un parallelo flusso dalle campagne verso le città e le regioni (settentrionali) più industrializzate. Prevalsero due destinazioni: extraeuropea (America Latina -subito in calo per le continue crisi economiche e politiche- Australia, Venezuela) ed europea (Francia, Svizzera, Germania).



Espatri dalle varie regioni 1876-1900                         1901-1915

Piemonte
709.076
13,5
831.088
9,5
Lombardia
519.100
9,9
823.695
9,4
Veneto
940.711
17,9
882.082
10,1
Friuli V.G.
847.072
16,1
560.721
6,4
Liguria
117.941
2,2
105.215
1,2
Emilia
220.745
4,2
 469.430
5,4
Toscana
290.111
5,5
 473.045
5.4
Umbria
    8.866
0,15
 155.674
1,8
Marche
 70.050
1,3
 320.107
3,7
Lazio
 15.830
0,3
 189.225
2,2
Abruzzo
109.038
2,1
 486.518
5,5
Molise
136.355
2,6
 171.680
2,0
Campania
520.791
9,9
 955.188
10,9
  50.282
1,0
 332.615
3,8
Basilicata
191.433
3,6
  194.260
2,2
Calabria
275.926
5,2
  603.105
6,9
226.449
4,3
1.126.513
12,8
-----
----
---
---
--
Totale espatri
5.257.911
100
8.769.749
100


Fonte: Rielaborazione dati Istat in Gianfausto Rosoli, Un secolo di emigrazione italiana 1876-1976,Roma, Cser, 1978.


  Espatri dalle varie regioni 1916-1942            1946-1961 


Piemonte
533.083
13,9
86.193
2,13
Lombardia
497.579
12,9
292.156
7,21
Veneto
392.157
10,2
611.438
15,09
Trentino
119.245
 3,1
  61.554
1,52
Friuli V.G.
378.631
 9,8
276.101
6,81
Liguria
116.099
 3,0
55.647
1,37
Emilia
188.955
 4,9
222.099
5,48
Toscana
258.906
 6,7
129.787
3,20
Umbria
  43.341
 1,1
  41.078
1,01
Marche
114.378
 3,0
104.691
2,58
Lazio
78.556
 2,0
195.816
4,83
Abruzzo
157.342
 4,1
308.365
7,61
Molise
   62.621
 1,6
151.638
3,74
Campania
319.496
 8,3
495.591
12,23
155.632
 4,0
385.721
9,52
Basilicata
  67.203
 1,7
110.322
2,72
Calabria
281.479
 7,3
420.525
10,38
  44.909
 1,2
  42.725
1,05
Sardegna
  35.666
 0,9
  60.443
1,49
Totale espatri
3.845.278
100
4.051.890
100



Principali paesi di emigrazione italiana     1876-1976

Francia
4.117.394
Stati Uniti
5.691.404
3.989.813
Argentina
2.969.402
Germania
2.452.587
Brasile
1.456.914
Belgio
   535.031
Canada
    650.358
Gran Bretagna
   263.598
Australia
    428.289
Altri
1.188.135
Venezuela
   285.014
Totale Europa
12.546.558
Extra Europa
11.481.381


Si trattò di un esodo che toccò tutte le regioni italiane e tra il 1876 e il 1900 interessò prevalentemente le regioni settentrionali, con tre regioni che fornirono da sole il 47 per cento dell'intero contingente migratorio: il Veneto (17,9 per cento), il Friuli Venezia Giulia (16,1 per cento) e il Piemonte (12,5 per cento).

Nei due decenni successivi il primato migratorio passò alle regioni meridionali, con quasi tre milioni di persone, emigrate dalla Calabria, Campania e Sicilia e quasi nove milioni da tutta Italia. A partire dai primi anni ’70 l’Italia si trasforma, quasi inavvertitamente, in paese d’immigrazione, ma i flussi in uscita non si sono però interrotti del tutto. Quella che una volta era partenza di massa si configura ora come fuga di cervelli, per i quali sono auspicabili, e obbligate, adeguate politiche di rientro e reinserimento (Dacia Maraini, Corriere del 22 maggio 2012). Parliamo della nuova emigrazione italiana, numerosa e così diversa dalla stereotipo dell’ignorante con la valigia di cartone.

Nei fatti oggi escono professionalità più elevate e talentuose sostituite in entrata attraverso l’immigrazione di professionalità più modeste. Per dirla brutalmente e, senza offesa per nessuno, cediamo ingegneri, biologi contro badanti e muratori e se i migliori se ne vanno, ancora una volta, a cercare fortuna, significa proprio che non siamo un paese per giovani ora, nel 2012, come nei secoli passati.

I cosiddetti “giovani del web 2.0” o, più drammaticamente, “la generazione del 35%” (disoccupati) sono costretti a ripercorrere la strada dei loro nonni: l’unica differenza è che la valigia di cartone è stata sostituita dal trolley..


Per parlare dell’emigrazione nelle Americhe, in quella del nord in particolare, ho preferito rifarmi al percorso immaginario interattivo sulla migrazione che i musei di Genova propongono attraverso internet e che si può eventualmente approfondire visitando il loro sito. [5]

Il percorso inizia da una casa contadina di fine Ottocento: su un tavolo si aprono le ‘lettere di chiamata ’ o “att’ d’ richiam”, le missive che i parenti già all’estero inviavano ai familiari perché li raggiungessero. Queste lettere, con le fotografie dei familiari, con le immagini dei “nuovi mondi”, con i dollari e i biglietti di viaggio, talvolta prepagati, si aprono a magnificare le sorti della “Merica” o comunque, la fuga dalla fame.

Una volta riuscito ad ottenere passaporto e il biglietto di viaggio, l’aspirante emigrante si ritrova a Napoli o, più spesso, a Genova e nei suoi vicoli, pronto per la partenza o per la visita medica. Inizia proprio dalla stazione Principe (Genova era ovviamente l’occasione per il primo viaggio in treno per chi proveniva dal meridione) il percorso migratorio di 29 milioni di italiani dalla fine del 1800 ai primi del 1900. Il nostro emigrante, lo immaginiamo con la sua famiglia, con i suoi bagagli fatti di fagotti e speranze, entra nella Genova ottocentesca, in mezzo ai ‘’carrugi’’. Il centro storico, per lunghi decenni, tra l’Otto e il Novecento, fu un teatro dove si agitava un’antica commedia: il viaggiatore, l’emigrante, come l’ospite inopportuno, e che non si perdeva l’occasione di dileggiare ma anche di sfruttare, come facevano gli albergatori, i medici, i sensali di ogni tipo di traffico. La storia degli emigranti passa anche attraverso i vettori che fornivano loro i biglietti per imbarcarsi. [6]

Tra i genovesi i maggiori furono i Fratelli Lavarello che, con la loro flotta, trasportarono molti emigranti in America Latina. Nella zona di Salerno si ricorda invece l’agenzia Barbirotti, ancora operante. [7]

La nave all’ancora chiama i passeggeri e gli emigranti entrano nella stazione marittima: verifica (disinfezione) dei bagagli, dei passaporti, timbratura dei biglietti ed imbarcano passando attraverso una passerella di legno.

Da un “camerone” con le cuccette riservate agli uomini, si passa alla seconda classe, fornita di cabine a quattro letti e, ancora, all’infermeria e alla cabina del commissario di emigrazione che sorvegliava i passeggeri.

Non mancano le celle dove venivano imprigionati i passeggeri più violenti, né il refettorio dove si consumavano i pasti e la sezione femminile con i letti un po’ più grandi per le mamme che avevano con sé i bambini.

Il viaggio da emigrante nelle viscere della nave finisce con lo sbarco nelle tre destinazioni principali dell’emigrazione italiana: l’Argentina negli anni tra il 1860 e il 1880, il Brasile tra il 1880 e il 1892 e gli Stati Uniti con Ellis Island.[8]

Nord America: Ellis Island, il sogno de “La Merica”

Dalle grandi finestre si vedono, sullo sfondo, New York e i grandi transatlantici italiani che per decenni portarono gli emigranti: il Duilio e il Rex. Ecco le sbarre bianche che dirigevano il flusso dei migranti, avviati al controllo sanitario e psicologico. Appaiono i volti di tanti emigranti, un caleidoscopio di etnie e di popoli, a ricordare che Ellis Island, “l’isola delle lacrime” appartiene a tutto il mondo, e non solo agli italiani.


Un isolotto a circa un miglio da Manhattan, per oltre sessant'anni (1892-1954) è stato la prima tappa per milioni di immigrati che partivano dalle loro terre di origine verso gli Stati Uniti. Il porto di Ellis Island ha accolto più di 12 milioni di aspiranti cittadini statunitensi (prima della sua apertura altri 8 milioni transitarono per il Castle Garden Immigration Depot di Manhattan), che, all'arrivo, dovevano esibire i documenti di viaggio con le informazioni della nave che li aveva portati a New York.

Medici del Servizio Immigrazione controllavano rapidamente ciascun immigrante, contrassegnando sulla schiena, con un gesso, quelli che dovevano essere sottoposti ad un ulteriore esame per accertarne le condizioni di salute (ad esempio: PG per donna incinta, K per ernia e X per problemi mentali). [9]

Chi visita il museo di Ellis Island, può affrontare i famigerati test di intelligenza che costarono cari a tanti nostri nonni: il puzzle, il “Cubo di Knox”, le prove di lettura degli stampati originali che fecero rientrare in patria molti analfabeti. Bastava poco per essere ributtati indietro e gli emigranti avrebbero voluto morire piuttosto che ritornare in Italia, dopo aver promesso che avrebbero avuto successo in America. Chi superava questo primo esame, veniva poi accompagnato nella Sala dei Registri, dove era atteso da ispettori che registravano nome, luogo di nascita, stato civile, luogo di destinazione, disponibilità di denaro, professione e precedenti penali. Alla fine riceveva il permesso di sbarcare e veniva accompagnato al molo del traghetto per Manhattan.

I "marchiati" venivano inviati in un'altra stanza per controlli più approfonditi. Secondo il vademecum destinato ai nuovi venuti, "i vecchi, i deformi, i ciechi, i sordomuti e tutti coloro che soffrono di malattie contagiose, aberrazioni mentali e qualsiasi altra infermità sono inesorabilmente esclusi dal suolo americano". Tuttavia risulta che solo il due percento degli immigranti siano stati respinti. Per i ritenuti non idonei, c'era l'immediato reimbarco sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti, la quale, in base alla legislazione americana, aveva l'obbligo di riportarli al porto di provenienza. Fu per la severità dei controlli che l’isola venne chiamata l' "Isola delle lacrime".

Il picco di immigrazione più alto si ebbe nel 1907 con 1.004.756 di persone approdate.


Tramite internet[10] si può accedere ad un sito che consente di cercare tracce di amici e parenti che sono emigrati negli Stati Uniti tra il 1892 e il 1924, transitando per gli uffici dell'immigrazione dell'omonima Ellis Island che, come abbiamo già detto, era la principale porta di ingresso per chi cercava fortuna nel Nuovo Mondo.


Sotto il risultato della ricerca fatta solo per alcuni cognomi.

In fianco è riportata l’anno di arrivo in USA e l’età

Alfonsina Ciliberti          Santomenna         1922        61 

Alfonso Ciliberti             Santomenna         1905        23 

 Francesco Ciliberti         Santamanna         1893        23 

Giuseppe Ciliberti          S. Menna               1893          -

Vicenzo Ciliberti             S. Menna               1902        30

Vita Maria Ciliberti        S. Minna                1893        30 

Antonino Di Geronimo   S. Menna,             1907        40 

Annamaria Di Geronimo Santomenna       1924        32 

Francesco Di Geronimo  Santomenna        1905        20 

 Francesco Di Geronimo  Santomenna       1904        22 

Giuseppe Di Geronimo     Santomenna      1905        24 

Vito Di Geronimo           Santomenna         1905        22 

Giacomo Di Geronimo                  Salerno                   1906      20  (mio nonno)

Domenico Turi                 Santomenna         1904        23 

Donato Turi                      Santomenna         1906        21 

Leonardo Turi                  Santomenna         1902        31 

Luigi Turi                          Santomenna         1907        22 

Antonio Piserchia            Santomenna         1903        26 

Pietro Piserchia                Santomenna         1902        48 

Fra questi anche due Carlucci,

Giuseppe Carlucci           Santomenna                         1902        22 

Nicola Carlucci                Santomenna                         1903        35 

Francescopaolo Carlucci                                               1896        36 

Francescopaolo Carlucci Matera (Salerno)1905     (evidente l’errore)

Cercando Salandra escono ben 50 persone. Quelli riportati sotto sono quelli che hanno indicato come luogo di origine Santomenna, o similari: non è escluso ve ne siano altri visto che non sempre la località è stata indicata o trascritta in modo corretto, ovviamente per le difficoltà di comprensione della lingua.

Andrea Salandra              Santomenna                         1903        19 

Concetta Salandra           Santamenna,                        1920        18 

Giuseppe Salandra          Santamusne                         1905        18 

Giuseppe Salandra          Santomenna, Italy              1921        22 

Giuseppe Salandra          Santomenna, Italy              1911        25 

 Giuseppe Salandra         Santomenna, Italy              1911        27

Vincenzo Salandra          S.Menna, Italy                     1923        22 

Vitantonio Salandra        Santomenna, Italy              1921        17 

Vitantonio Salandra        Santomenna, Italy              1911        18 

Vito Salandra                   Santomjuna                          1900        52 

Si noti come il nome del paese fosse riportato, spesso, in modi diversi


Sull’argomento una testimonianza, utile anche all’introduzione del prossimo capitolo dedicato a Frank Carlucci III


Audio reg. n° 14

Il papà di Luigi Di Nicola (Michele) partì per l’America nella prima ondata, pare il 1870, più o meno lo stesso periodo in cui partirono anche gli antenati di Carlucci, che erano scalpellini.

Luigi conferma di aver saputo, evidentemente dal padre, che una volta, a Santomenna, c’erano bravissimi scalpellini: i più famosi appartenevano alla famiglia Crocinini.


Frank Carlucci: l’emigrante più famoso [11]


 “Sesto nella linea di comando della potenza più grande del mondo”

Frank Charles Carlucci III (nato a Scranton in Pennsylvania il 18 ottobre 1930) è stato un diplomatico e uomo politico statunitense. Carlucci ha ricoperto vari incarichi di governo nelle amministrazioni repubblicane, tra il 1971 e il 1989. In particolare sotto l'amministrazione di Ronald Reagan, ha svolto il ruolo di Segretario della Difesa degli Stati Uniti dal novembre del 1987 al gennaio del 1989.

Nato in Pennsylvania da una famiglia di origini sammennesi[12], (il nonno Francesco Carlucci partì da Santomenna nel 1892) si laurea a Princeton nel 1952 e negli anni 70 comincia la sua carriera politica.

Dopo un primo incarico nell'amministrazione Nixon, ricopre il ruolo di Ambasciatore in Portogallo tra il 1974 e il 1977. Fu in quell’occasione che il premier portoghese Mário Soares, definì Carlucci "Un tipo piccolo, vivo. Un mafioso tipico italiano!" (“Un tipo pequenino, vivo. Un típico mafioso italiano!").

Nominato da Jimmy Carter Vicedirettore della CIA, Carlucci ricopre questo incarico tra il 1978 e il 1981, quindi è vicesegretario alla Difesa tra il 1981 e il 1983 ed entra nel Gabinetto del Presidente Reagan nel 1986 come Consigliere per la Sicurezza nazionale. L'anno seguente sostituisce il dimissionario Caspar Weinberger come Segretario della Difesa e resta in carica per 14 mesi fino alla fine del mandato di Reagan. Quale Segretario della Difesa degli Stati Uniti d'America, Carlucci era anche il capo del Dipartimento della Difesa. Il Segretario di Stato è il sesto nella linea di successione del Presidente. Conclusa l'attività politica, dal 1992 al 2003, ha diretto la società di investimenti “Carlyle”.

Le origini sammennesi di Frank Carlucci III sono documentate chiaramente da un articolo della biografa Suzan Mazur[13] dal titolo “Frank Carlucci Principe Sublime”: l’articolo parla esclusivamente del nonno sammennese del più famoso Segretario di Stato.

 “La vita di Frank Carlucci I, inizialmente sfuggita all’opinione pubblica, viene prepotentemente alla ribalta in quanto è il nonno di uno dei cavalieri della scacchiera politica Frank Carlucci III – del “Carlyle Group”. Carlucci I (nonno del più famoso F. Carlucci III) era un uomo esuberante e ha lasciato una eredità, da capomastro, che merita attenzione. Tra i suoi progetti più importanti ricordiamo la stazione di approdo di Ellis Island nella baia di New York, la grande scalinata dell’ Arlington National Cemetery e il Willard Hotel di Washington DC.

Inoltre la sua vita spiega alcune posizioni politiche del suo più illustre nipote. La sua propensione per la segretezza nella confraternita massonica, ad esempio, per la quale è stato premiato con la più alta onorificenza: "principe sublime del segreto reale", era senza dubbio codificata in qualche parte del cromosoma Y ed è passata a Frank Carlucci III, che ha servito come vice Direttore della CIA, segretario della difesa e consigliere per la sicurezza nazionale, tra gli altri incarichi di fiducia. La base del potere di Carlucci I era la sua abilità: come scalpellino italiano di terza generazione era sicuro del suo lavoro.

Era anche un uomo straordinariamente bello, baffi a manubrio, come appare in una foto del 1897 “

 É stato lo storico Joseph H. Young che ha recuperato i documenti della contea di Lackawanna ed ha accertato che Frank Carlucci era nato a “Santomenna”, Italia, in provincia di Salerno il 7 aprile 1862 ed era il figlio di Carlo e di Grazia (Napoliello) Carlucci e il nipote di Giovanni Angelo Carlucci.

 “Frank iniziò a tagliare pietra a 14 anni in Italia. E nel 1882, all'età di 20 anni, emigrò negli Stati Uniti con il fratello Nick Carlucci. Erano in tutto nove figli e la famiglia si riunì a Scranton dove vive ancora un certo numero di discendenti. Frank ha lavorato in Scranton con un imprenditore edile tedesco di nome Conrad Schroeder, lasciando l'azienda nel 1884 per formare una partnership per il taglio della pietra con il fratello Nick – “Frank Carlucci & Brother “allora” F & N Carlucci”. Nel 1900, “F & N Carlucci” si è fusa con Schroeder, riorganizzando come “The Stone Company Carlucci.” [...] I cantieri Carlucci sono stati convenientemente situati a Scranton vicino alla ferrovia Delaware, Lackawanna & Western, il che ha permesso ai Carlucci il trasporto di pietre in tutto il paese [...]

Carlucci I ha collaborato con architetti come Lansing Holden, Fred Amsden, Ed Langley e altri per costruire decine di punti di riferimento nel nord-est della Pennsylvania e altrove, tra i quali: il tribunale di contea, un ufficio postale, cinque chiese protestanti e il carcere di Lackawanna, il Coal Exchange Building (con Schroeder), diversi alberghi e lo Scranton Republican Building (vedi foto a fianco).

Egli ha anche costruito la sua casa in pietra a Clay Avenue e Poplar Street - un tempio greco classico con colonne, dove viveva con la moglie svizzera, Louise Cerine e i figli Frank Jr., Carl, Helen e Althea.

Carlucci ha mantenuto contatti con un pool di artigiani nel Sud Italia, dove è cresciuto, alcuni dei quali ha portato a Scranton dove ha iniziato una Scuola di Meccanica e Arti per formare scalpellini. Carlucci I ha inoltre pubblicato anche l'unico giornale italiano dell’epoca nel nord-est della Pennsylvania, “il Pensiero”, ha organizzato numerosi club politici repubblicani e servito in vari consigli locali. Per celebrare il 400 ° anniversario della scoperta dell’ America di Cristoforo Colombo, Carlucci ha proposto di erigere un monumento a Colombo, nella Piazza del Palazzo di Giustizia di Scranton.

Lo Scultore italiano Albini Cottini disegnò il modello per Colombo e Carlucci lo ricavò da un blocco di 9 piedi di calcare massiccio. La statua si trova ancora nella piazza dove Carlucci ha parlato all’inaugurazione avvenuta l’ 11 ottobre 1892.

 Carlucci nel 1893 scolpì per la piazza anche una statua di George Washington. Per le sue opere si avvalse di progettisti talentuosi come Vincent Russoniello. Nel 1913 la vista di Carlucci cominciò a peggiorare. In quel periodo ci fu anche un crollo finanziario e numerose banche furono chiuse. Carlucci dovette lasciare l’attività connessa al taglio della pietra e fu costretto a vendere la sua casa. Dal 1921 fino alla sua morte, un decennio più tardi, operò nell’industria del carbone.

Suo figlio, Frank Carlucci, Jr., avrebbe preso una strada più sicura come agente di assicurazione.

Frank Carlucci morì il 4 Marzo 1931 all'età di 69, diversi mesi dopo la nascita del nipote e omonimo, Frank Carlucci III.

 Altre storie d’America

Una bella storia anche quella dei Figurelli che, a quanto pare, oltre che in Brasile (vedi testimonianza nell’apposito capitolo) sono emigrati anche in America.

Ora, anche attraverso internet, i Figurelli sono alla ricerca delle loro origini.


La storia di “Peter Toby Fegorello”
Il trisavolo era il fabbro Tobia Figurelli (nato Santomenna nel 1830 e morto nel 1889) che sposò Maria Giuseppa Cuccaro . Il figlio Pietro Figurelli (n. a Santomenna nel 1864) si trasferì a Jersey City, USA dove morì nel 1929. Sposato con Gelsomina Fasano si trasferì in America, dove lavorò nella compagnia elettrica di New Jersey.

 “Il mio bisnonno, ancor prima di partire per l’America, aveva avuto un figlio di nome Tobia Figurelli (nato in Santomenna il 5 Luglio 1897 e morto negli USA nel 1957). Tobia era arrivato negli USA nel 1903, prima del suo sesto compleanno. In America, dove fece il barbiere, gli cambiarono il nome da Figurelli a "Fegorello".

In America, nel 1929, nacque mio padre Peter Tobia Fegorello (morto nel 2003). Io, che sono nato nel 1959, sono alla ricerca delle mie radici ed anche per questo non vedo l’ora di venire a conoscere Santomenna, assieme a mia moglie Josephine e mia figlia Jacqueline”

           
Per certo aspetti analoga la storia di Geo Carlucci che, dopo essere stato a Londra, ora vive ad Edimburgo (Scozia).

Sempre attraverso il web dice:

“Ho dei parenti emigrati negli Stati Uniti agli inizi del 1900, quindi può essere che io sia anche correlato con il ramo di Frank Carlucci.

Il mio nonno Pasquale e il bisnonno Francesco, sono nati a Santomenna ed emigrarono sicuramente assieme negli USA.

La mia bisnonna, invece, era Voza.

Successivamente il mio nonno Pasquale ha lasciato gli USA.

La presentazione del libro potrebbe essere per me una buona occasione per conoscere Santomenna e gli altri Carlucci: Edimburgo non è lontano”.



 Il primo punto di approdo era La Boca, fuori Buenos Aires, che è anche il quartiere dove si insediarono i liguri nella prima metà dell’Ottocento. E la Boca si presentata con i suoi colori vivaci perché le costruzioni, realizzate in legno dai liguri, furono dipinte con la stessa pittura che i genovesi usavano per le loro navi e le loro barche.

La testimonianza di alcuni emigranti in Argentina


L’esperienza e il contributo di Felice Venutolo

Felice Venutolo mi ha gentilmente inviato alcune riflessioni, da lui scritte, sulla sua esperienza di emigrante in Argentina, sulla sua vita, la partecipazione alla seconda guerra mondiale, oltre che alcuni ricordi legati “a Santomenna negli anni cinquanta/sessanta”.

É una lunga e toccante testimonianza su cui, mio malgrado e me ne scuso, ho dovuto apportare dei tagli (in particolare negli aspetti della vita familiare che vanno oltre la finalità del libro) e qualche aggiustamento, pur cercando di non travisare i contenuti.

Il racconto di Felice è preceduto da un’amorevole prolusione dei figli.


Prologo

 “Questo è il racconto di una storia di vita semplice e profonda di un uomo che ha cercato sempre un suo luogo al mondo. Nacque in Italia, ma la sua vita e le sue circostanze fecero che questo luogo lo trovasse in Argentina, più precisamente a Lanús, provincia di Buenos Aires.

È scritto in prima persona perché venne fatto da lui stesso, malgrado la sua formazione di base fosse solo da scuola elementare. In essi vuole riflettere l’instancabile ricerca per trovare le forze per vivere con speranza, dimostrare e dimostrarsi che vale la pena vivere accettando le sfide, le questioni incomprensibili e le crisi che si presentano. Ebbe il dolore di attraversare un periodo atroce e senza senso com’è stata la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale l’Italia si imbarcò nella pazzia nazi-fascista senza misurare le sofferenze di tutto il suo popolo. Si descrivono anche le vicende e la cultura della vita del suo paese, Santomenna (Salerno) dove non c’era futuro né progresso per le persone che ci abitavano e quello, sommato allo stato in cui lItalia si trovava dopo la Guerra, spinse migliaia di persone ad essere immigranti in molti paesi che gli aprirono le loro porte. Uno di quelli fu l’Argentina, che ricevette loro a braccia aperte perché lavorassero e superassero così i patimenti passati. Questo era ciò che cercavano.

Possiamo trovare in questo racconto le vere ragioni che li costrinsero ad essere immigranti per abbandonare con dolore la loro terra natia, lasciando famiglia e amori, entrando nella nostalgia per la terra che non sarebbe mai stata dimenticata. Non c’è nei nostri genitori una singola azione eroica; l’eroismo c’è nella lotta di ogni giorno per superarsi, per essere migliori, per dare a noi, i loro tre figli, tutto ciò che loro non hanno potuto avere. Questo l’abbiamo sempre capito come un grandissimo atto di amore.

Questa generazione d’immigranti dovette far fronte ad una triste realtà: loro non ebbero una propria terra. Quella che lasciarono non sentiva la loro mancanza e nella nuova erano stranieri.

Il sacrificio fu una compagnia inseparabile della loro vita. Non ne potevano godere sufficientemente a causa di tante perdite. E di questa mancanza fecero virtù. C’insegnarono che la costruzione di un mondo migliore richiede un sacrificio personale. Ognuno ha il suo ruolo al mondo e costruisce la sua storia. Questo compito non si delega. La cultura del lavoro è l’eredità importante che ci trasmisero e così furono protagonisti nella costruzione del nostro paese.

Caro Papà, grazie per il tuo sacrificio che, insieme con quello della Mamma, ci permisero di essere persone perbene e ricevere un’educazione che non avete avuto. Malgrado questa mancanza, sapeste scoprire i veri valori della vita, quelli che non dipendono dalla moda o dallo svago. Foste voi sempre genitori onesti e affettuosi. Ci formaste per tentare di costruire un mondo migliore. GRAZIE! “

Silvana, Emilio e Gerardo


La mia famiglia

Mio padre, Gerardo Venutolo, ebbe otto figli. Fu un gran lavoratore, rispettoso e amabile. Partecipò alla Prima Guerra Mondiale della quale parlava sempre: aveva sofferto molto, anche per una bronchite cronica, che fu tra le cause della sua prematura scomparsa, avvenuta a 56 anni. Ci ha lasciato tanti ricordi: rispettare e farsi anche rispettare, non fare del male a nessuno. Quando si dà una parola, bisogna mantenerla; quando non si può andare avanti, chiarire i motivi. Fece tanti sacrifici per non farci mancare il necessario e, per grazia di Dio, ci riuscì. Eravamo proprietari di terreni: si coltivava di tutto ma bisognava lavorare sempre ed in qualsiasi epoca dell’anno. Anche mia mamma ereditò, dal nonno Carmine, dei terreni agricoli. Il nonno Carmine era rimasto senza genitori a 16 anni, forse in conseguenza della “febbre Spagnola” che colpì tanta gente. Nonostante ciò, con tanti sacrifici riuscì ad acquistare un buon patrimonio grazie all’emigrazione in Brasile, dove si recò ben cinque volte.


 La mia storia personale

“Finita la Seconda Guerra, eravamo ritornati tutti a casa ma, poco tempo dopo, ognuno di noi ha cercato di prendere la strada dell’indipendenza. Che cosa si poteva fare? Sposarsi oppure andarsene da Santomenna. Scelsi la via più facile: ci sposammo in quattro, ma, ripeto, ciò non fu molto favorevole all’economia familiare perché, da ricchi, siamo diventati tutti più poveri, a causa delle spartizioni. Appena sposato la felicità coniugale durò pochissimo. Mia moglie Anna contrasse una brutta malattia pochi mesi dopo esserci sposati e morì nel dicembre del ’48. Dopo tanto dolore, non sapevo che fare né dove andare, che strada prendere; spesso andavo alla casa paterna ma non era più come prima, mi trattavano bene ma io mi sentivo già fuori dalla famiglia. C’erano debiti da pagare ma non sapevo come pagarli e dovevo andarmene. In quel momento a Santomenna non c’era lavoro, avevo bisogno di uno stipendio per risolvere il problema economico, così mi è venuta lidea di emigrare in una qualsiasi parte. Io ed altri tre di Santomenna abbiamo tentato di andare in Francia, ma non ci siamo riusciti: appena varcata la frontiera siamo stati presi dalla Polizia Francese e deportati in Italia, perché eravamo clandestini. Così pensammo di emigrare in Argentina, però ci voleva un atto di chiamata. Mi ricordai di un parente di nostra madre, Francesco Di Geronimo. Incominciai a fare i documenti per il passaporto, ma questo non mi veniva spedito. A Salerno mi dissero che c’era una denunzia per aver varcato la frontiera francese senza permesso e dovevo fare una causa a Ventimiglia. Non era tanto facile, perché cera bisogno di un avvocato e ciò comportava altre spese. Fortunatamente mi fu consigliato un avvocato d’ufficio che seguì la pratica senza chiedere nulla. Pochi giorni dopo il passaporto è arrivato e incominciai a pensare ai soldi per pagare il viaggio in Argentina. Mi informarono che un signore di Castelnuovo prestava soldi per viaggi all’estero, sono andato a trovarlo e mi ha detto che lui mi prestava la somma solo se io avevo un garante. Ho parlato con mio padre per sapere se lui poteva farlo e mi ha detto di sì. In seguito, a mese a mese, mandavo dall’Argentina i soldi del viaggio. É stato molto duro lasciare la famiglia e la piccola casa fatta con tanti sacrifici.

Il primo agosto 1949, sono partito da Napoli con una nave da carico e passeggeri. La nave toccava tutti i porti: Palermo, Tunisia, Isole Canarie, Rio de Janeiro, Santos, Montevideo, Buenos Aires: dopo 32, quando sono sceso dalla nave, ho sentito l’ impulso di baciare la terra. Grazie a Dio ero arrivato salvo! “

Dal 2 settembre del 1949 in Argentina, comincia un’altra vita

  “Il giorno dopo l’arrivo sono andato in Questura per sollecitare il documento di residenza argentino. Dopo quattro giorni ho iniziato a lavorare: non era il lavoro che volevo ma bisognava accontentarsi: dopo otto mesi avevo finito di pagare anche il debito al signor Ricciulli di Castelnuovo che ebbe la pazienza di prorogarmi la scadenza di due mesi. Però pensavo sempre di ritornare in Italia. Per farlo, dovevo cercare un altro lavoro per guadagnare qualcosa di più.

Incominciai a lavorare in una fabbrica di tessuti notte e giorno, questo mi permetteva di guadagnare un 30 per cento in più. Poi tutto è cambiato quando ho deciso di sposarmi: ero stanco di una vita da solo, in quel momento in Argentina non si stava tanto male, in Italia e, più ancora a Santomenna, era difficile vivere decorosamente. Così ho pensato ad una ragazza del mio paese che sapeva tutto della mia storia. Ecco come è venuto il pensiero di scegliere proprio Vincenza Salandra. Le ho fatto domandare dalla cognata Lina, insieme al fratello Giuseppe, se lei aveva altri impegni e ha risposto che non ce li aveva. È rimasta molto sorpresa dicendo “come ha pensato proprio a me?”ma ha accettato la mia proposta e così ci siamo messi in corrispondenza. Ho scritto al padre di Vincenza e lui è stato d'accordo sulla mia richiesta così abbiamo continuato a scriverci per due anni.

Ci siamo sposati per procura il giorno 5 gennaio 1954 ed ho cominciato a fare i documenti per farla venire al più presto possibile. Nel frattempo era morto il mio caro papà: fu un dolore per tutti, tanto più per me che ero lontano. Vincenza partì da Napoli il 20 aprile 1954, con la nave di bandiera argentina “Buenos Aires”. Vincenza è arrivata al porto di Buenos Aires il 7 maggio. Appena scesa dalla nave, ci ha detto che si sentiva male, aveva passato il viaggio quasi completamente a letto. Ma poi quando ha visto me, il mal di mare le passò come d’incanto. Aveva trovato chi le voleva bene per tutta la vita. Siamo andati a casa della sorella Maria per passare qualche giorno insieme, prima di unirci. Ormai eravamo sposati, e ci siamo uniti il 10 maggio 1954, con le Santa Benedizioni del Signore, nella città di Lanús Oeste, dove ero residente.

Dopo il tempo necessario, Vincenza diede alla luce un bel maschietto a cui diedi il nome del mio caro papà, Gerardo. La notte del 1° maggio 1956 nacque la bella e cara Silvana. Vincenza aveva sempre l’idea di rivedere suo padre e le venne la volontà di ritornare in Italia. I bambini intanto avevano incominciato ad andare scuola. Con l’aiuto di Vincenza eravamo riusciti a mettere da parte una buona somma di denaro e possedevamo una fiorente macelleria. Decidemmo di ritornare in Italia quando Gerardo aveva nove anni e Silvana otto. Ho messo perciò in vendita la chiave del negozio con tutto l’arredamento. In poco tempo è stato venduto abbastanza bene. Quando tutto era pronto, abbiamo dovuto aspettare fino al 22 agosto, partendo per l’Italia con la nave "Augustus".

Eravamo ritornati in Italia col pensiero di rimanerci definitivamente, ma non abbiamo trovato la sicurezza in quel momento: la situazione politica confusa, sembrava che il comunismo avanzasse, la necessità di spostarmi da Santomenna in città senza conoscerne bene l’ambiente. Mi sono sentito molto solo nel decidere: mi sarebbe stato necessario più tempo per capire se restare o meno.

Pensavo ai bambini che dovevano andare a scuola e non volevo far loro perdere l'anno scolastico. Erano passati già quattro mesi senza ancora decisioni solide, e c’erano anche difficoltà perché, per poter ottenere un lavoro, si doveva avere una lettera di raccomandazione, come abitudine dei piccoli paesi come il nostro. In Argentina, bastava avere voglia di lavorare. Siccome il tempo passava senza esserci sistemati, finalmente con Vincenza abbiamo deciso di ritornare in Argentina al più presto possibile. Cera una partenza il 4 dicembre, nuovamente con la nave “Augustus”. Siamo arrivati a Buenos Aires il 22 dicembre dello stesso anno della partenza. Pur nell’amarezza del rientro, ci siamo messi subito alla ricerca di un posto dove impiantare la macelleria e la casa. Alla fine i nostri sforzi sono stati premiati e, dopo un anno, il negozio è stato aperto.

Ormai l’Argentina è la nostra seconda Patria, ed é anche la Patria dei miei, cioè dei nostri tre cari figli, e dei nostri cinque cari nipotini: noi genitori e nonni abbiamo imparato a rispettare e collaborare con questa seconda Patria in pace e tranquillità. “


Vedi anche il contributo che la storia di Felice Venutolo ha fornito ai cap.:


 “La seconda guerra mondiale a Santomenna”

“La Scuola di allora”


L’esperienza e il contributo di Alfonso Figurelli

Video 29 e Audio reg. n° 16

Dopo un periodo di infanzia comunque felice, Alfonso Figurelli partì per l’Argentina nel 1956, all’età di 15 anni. Il papà, di ritorno dall’Argentina, dove era andato già nel 1950, convinse la famiglia a seguirlo in quanto da solo non sarebbe riuscito a vivere nel paese straniero. Dopo aver promesso che tutti i componenti della famiglia avrebbe avuto un buon paio di scarpe, (il papà di Alfonso era un buon calzolaio), riuscì a strappare alla giovane moglie la promessa che tutta la famiglia l’avrebbe seguito in Sud America.

Il papà rientrò nel ‘54 per preparare nel migliore dei modi l’arrivo della moglie e dei cinque figli: Alfonso era l’unico maschio.

In quei tempi difficili, anche l’Argentina, grazie all’accordo che aveva fatto con l’Italia (secondo Alfonso il presidente Peron aveva studiato con Mussolini e quindi aveva una grande stima degli italiani) favorì l’emigrazione degli europei: il viaggio infatti fu completamente finanziato dal Governo Argentino.

Alfonso è convinto che è grazie a questa politica, che gli emigranti giunti in Argentina (e sono tantissimi) sono per il 60% di origine italiani, mentre solo il 27% è costituito da spagnoli infine c’è una buona rappresentanza di polacchi.

Le pratiche di espatrio e di viaggio di Alfonso, che allora venivano gestite dall’Agenzia Barbirotti di Salerno, subirono qualche ritardo a causa di una forte nevicata che non permise a sua madre di recarsi a Salerno.

Il desiderio e l’ansia di partire preoccupavano il giovane Alfonso, al punto che un giorno, stando sotto le finestre dell’Ufficio Postale, sentì i battiti del telegrafo e pensò che un telegramma gli sarebbe arrivato, di lì a poco, a negargli la partenza. Mai sensazione fu più veritiera: il telegramma annunciava che, a causa di un guasto alla nave, la partenza era rinviata.

  Le capaci casse di colore azzurro-verdastro erano state ormai riempite di tutto ciò che poteva essere trasportato (corredo, ecc) e la casa della famiglia di Alfonso era ormai vuota e pronta per essere chiusa: perciò per una quindicina di giorni la numerosa famiglia fu, suo malgrado, costretta ad accettare l’ospitalità dalla zia Peppinella e della figlia Luisa Voza.

Indimenticabile per Alfonso “il giro” del paese che ha dovuto fare la sera prima di partire: un rito. A questo punto Alfonso nell’intervista tradisce un pizzico di commozione in quanto, nonostante avesse sempre aspettato e desiderato quella partenza, l’abbraccio del cugino Giacomino, il saluto, in cui tutta la piccola comunità veniva coinvolta, gli crearono emozioni ancora vive nei suoi ricordi. C’era chi invidiava Alfonso e lo considerava fortunato per la bella opportunità e non gli mancarono anche le raccomandazioni di don Michele Figurelli, dal quale la famiglia era andata per ottenere una specie di benestare/approvazione e che responsabilizzarono molto Alfonso. A lui, non ancora quindicenne, l’avvocato Figurelli raccomandò di badare alle sorelle e di preservarle dai pericoli che lo stesso don Michele immaginava allora ci potessero essere nella remota Argentina.

Finalmente a Napoli, dove su una nave da cui avevano da poco scaricato mucche argentine (evidentemente anche quelle erano previste nell’accordo italo-argentino), Alfonso venne invitato a sistemare la sua branda in un grosso locale destinato ai soli uomini: lui avrebbe preferito dormire assieme alle donne, non per malizia, ma solo per rimanere accanto alla mamma e alle sorelle: era la prima volta, forse, che gli capitava di doversene separare.

Prima di proseguire il racconto del viaggio di Alfonso, vale la pena ricordare che anche l’Argentina come il Venezuela, adottando però un sistema sicuramente meno traumatizzante degli Stati Uniti, che avevano escogitato la “quarantena” ad Ellis Island, si premuravano di accogliere solamente gente sana. Infatti Alfonso e la sua famiglia, prima della partenza, dovettero recarsi a Genova (per quei tempi non era proprio dietro l’angolo) per sottoporsi ad una rigorosa visita medica.

“La Merica”, nonostante quelle camerate maleodoranti, era comunque dietro l’angolo: di lì a poco ad Alfonso vennero offerti dei ricchi e abbondanti piatti di carne: Alfonso ne mangiò così tanta che per tutti i dieci giorni successivi fu costretto a rinunciare a quel ben di Dio, in quanto, complice anche il mare molto mosso, stette malissimo.

Diciassette giorni durò il viaggio prima di arrivare a Buenos Aires (a Porto Madera non lontano dalla Boca) e dopo aver toccato nell’ordine: Genova, Las Palmas, Santos e Montevideo.

Il primo impatto non fu affatto sorprendente! Al di là delle montagne di Calabritto anche Alfonso aveva sognato ed immaginato un mondo infinitamente diverso: rimase perciò alquanto deluso nel vedere che anche in Argentina c’erano i passeri e gli alberi come a Santomenna.

Il timore di cosa potesse riservare questo nuovo mondo gli si ripresentò però poco dopo quando, nei cieli bassi di Buenos Aires, intravide e sentì un “aereo che parlava”: presto gli fu spiegato che quell’aereo era lì per fare propaganda.

Non furono facili i primi tempi: pur molto intraprendente e curioso, tanto da spostarsi subito e da solo da Lanusi alla vicina capitale Buenos Aires, quando utilizzava i mezzi di trasporto, Alfonso scrutava sempre tutti alla ricerca di qualche viso conosciuto, magari di qualche amico che aveva appena lasciato a Santomenna: gli amici di bottega del “compare Attilio” gli mancavano proprio tanto!

Anche Alfonso era arrivato a Lanusi, un grosso centro industriale non lontano dalla capitale Buenos Aires, dove, come io stesso ho potuto constatare, c’è una grossa comunità di Sammennesi.

Ciò è dovuto al fatto che, ancora negli anni trenta, un gruppo di Sammennesi era arrivato in quel centro: fra questi, un certo Vincenzo che ebbe l’idea di predisporre una vecchia ma grossa casa di legno (Alfonso ricorda di averne visto tantissime allora!) in cui “l’amico paesano” forniva un tetto, la prima accoglienza: il più delle volte era proprio lui a fare da garante e firmare l’atto di richiamo tanto ambito in quei tempi nel nostro piccolo paese. Alfonso aveva sedici anni quando, in Argentina, incominciò ad allargare le sue amicizie, iniziò a frequentare una scuola per tecno-meccanici e, poco a poco non ricercò più, nei visi dei passeggeri dei vecchi bus, le facce conosciute a Santomenna.


Video 30

Alfonso, dopo venti anni, ormai realizzato (una moglie italiana, una bella famiglia ed un avviato laboratorio per fare camicie) nel 1975 è ritornato la prima volta a Santomenna. Da allora è venuto sempre più spesso: ultimamente, essendo in pensione, rientra quasi annualmente.

Non si è mai pentito della scelta fatta, ma in lui c’è sempre il desiderio di ritornare per rivedere i “suoi” paesaggi, la “sua” gente umile ma generosa che, ogni qualvolta rientra, lo riempie di tutti quei prodotti agricoli a cui sa che Alfonso è legato (vino, sopressata, olio, verdura, salsa di pomodori, ecc.).

Come tutti quelli che ne hanno avuto l’opportunità, ha cercato di mantenere le tradizioni sammennesi, che ha voluto trasmettere anche ai propri figli, anche in Argentina: l’orto, l’allevamento delle galline e dei colombi (li palumm’), la cucina.

Con Alfonso concludiamo questa intervista parlando della sorella che ha voluto chiudere ogni rapporto con Santomenna dove aveva vissuto un’infanzia difficile anche se, nonostante la presunta indifferenza, sul suo porta chiavi è riportata una bell’ immagine della Madonna delle Grazie.


L’esperienza e il contributo di Mario e Michele Di Martino

 Video 33

Mario Di Martino ricorda di essere partito da Santomenna il 24 giugno 1957, quando ormai tutto era pronto per celebrare le feste di luglio. Non aveva alcuna voglia di partire e lasciare Santomenna proprio nel momento in cui incominciava a godere del calore degli amici. “In effetti”, dice Mario, “mi sentii “espulsato” in quanto mio padre insisteva che io partissi perché aveva paura mi coinvolgessero nella guerra dei sei giorni sul Canale di Suez. Quando fui chiamato da Pulista Cuculo, che aveva curato la pratica, fu peggio che ricevere una coltellata”.

Il 27, a Napoli, salì su una nave da cui avevano appena scaricato del grano: era il compenso per l’Italia che aveva firmato un accordo in base al quale in Argentina veniva inviata “forza lavoro” con viaggio pagato.

Sulla nave, Mario ha compiuto i 18 anni e, durante il viaggio, pianse per 15 giorni. Viaggiò assieme ad altre seicento persone fra questi due paesani: i fratelli “r pappascion’” che rientrarono in Italia poco dopo.

In Argentina Mario trovò i fratelli Giuseppe e Michele che avevano avuto l’atto di richiamo dai loro zii. Mario non spezzò la “catena migratoria” e chiamò il fratello Angelomaria. Tutta la famiglia (tranne Giuseppina che sposò Vito) si ricostituì in Argentina dove presto giunsero anche gli anziani genitori e la più giovane della famiglia, che è Maria.

All’arrivo, anche Mario venne ospitato da una zia. Per i primi due/tre anni fece il calzolaio. Appena risolse i problemi di lingua decise di mettersi in proprio: lavorava molto con le scarpe ortopediche (benedetto il compare Attilio di cui Mario conserva un caro ricordo assieme a tutti i numerosi amici che allora con lui frequentavano la bottega). Aveva trovato il lavoro che gli dava soddisfazione e di Santomenna, a parte gli affetti, gli angoli che lo avevano visto bambino, non aveva, ormai, alcun rimpianto.

Quando chiedo a Mario quali pietanze gli sono mancate, non ha dubbi, anche in Argentina ha tentato di mangiare la minestra con i fiori e le tenere foglie delle piante di zucca (li taggrhucc’), ma non avevano il sapore di quelle di Santomenna e poi la minestra (di verdure ovviamente) con la “pandella” di agnello, difficile riproporla in quanto nell’imbottitura bisogna mettere solo ed esclusivamente pecorino di Santomenna. Anche le “freselle” di una volta sono un bel ricordo, assieme a tutti i salami e, in modo particolare, la “supr’ssata”.

Anche Mario conferma che buona parte dei sammennesi sono arrivati a Lanusi.

 Video 36

Michele Di Martino (la Perchia) adesso ha 79 anni. Chiamato dal fratello Giuseppe raggiunse l’Argentina nel 1951, all’età di 17 anni. Anche Michele, dopo la consueta visita a Genova, partì da Napoli con una piccola nave (la Castelverde) che, durante il viaggio, risentì molto delle avverse condizioni del mare.

Nel periodo in cui è stato in Argentina, di Santomenna gli è mancato il posto, gli angoli, gli alberi della sua infanzia: insomma il paese natio, ciò che solo chi emigra apprezza di più (“si apprezzano le cose quando ti mancano”). Tutto il resto (lavoro, ecc.) l’ha trovato in Argentina.


L’esperienza e il contributo di Maria Calabrese

 Video 37

Nel luglio del 49, a soli 23 anni (oggi Maria ha 86 anni essendo nata nel 1926) e con un bambino di due anni, partì per l’Argentina assieme al fratello Gaetano (che dopo un paio di anni passò in Venezuela) e al cognato Mario, per raggiungere il marito Francesco Iannuzzi, emigrato un anno prima.

Il costo del suo viaggio non rientrò, come per altri, negli accordi italo-argentini, quindi dovette affrontarlo con soldi in prestito, regolarmente restituiti, grazie anche alle rimesse che il marito già inviava dall’America.

Partì da Genova dove, qualche mese prima, aveva passato la visita medica che superò brillantemente nonostante la paura per il riacutizzarsi di un mal di fegato, dovuto evidentemente allo stress.

Fu un viaggio di ventiquattro giorni durante il quale, per paura delle sue coliche epatiche, scambiava regolarmente la sua razione con quella destinata al piccolo Vito, il quale si sacrificava volentieri per un cibo più sostanzioso. Durante l’attraversamento dello stretto di Gibilterra la nave subì dei forti scossoni tanto da far rovesciare improvvisamente tutto ciò che era apparecchiato sui tavoli e costringere tutti i passeggeri ad indossare il giubbotto di emergenza. La paura fu veramente tanta.

All’arrivo in Argentina, oltre al marito, trovò i nostri comuni zii, Vito e Succorsa, e tanti altri amici desiderosi di conoscere questa “muchacha” italiana.

In Argentina, dove Maria rimase per sei anni, faceva la sarta ed aiutava nella macelleria gestita anche da alcuni miei parenti. Nella macelleria, in particolare, Maria curava il piccolo reparto frutta.

Le particolari condizioni climatiche, del tutto simili all’Italia, consentirono a Maria di conservare le tradizioni culinarie sammennesi: minestra, cavatelli, carne e patate, ecc. Qualche volta la sua mamma (zia Filomena) le inviava una latta sigillata contenente salsicce nell’olio (penso che le attuali norme sanitarie non lo consentano più).

In quel periodo non ebbe alcun rimpianto, a parte la lontananza dalla mamma, di aver lasciato Santomenna: aveva trovato tanto lavoro!

Nota autore: ricordo che diverse generazioni di Salandra hanno gestito macellerie a Santomenna oltre che a Castelnuovo. Diversamente che a Santomenna, dove l’ultimo dei Salandra a gestire una macelleria è stato mio papà Pasquale, in Buenos Aires, grazie a qualche mio cugino, la tradizione prosegue.



L’emigrazione in Brasile


 Questa emigrazione, meno conosciuta di quella statunitense e argentina, si impose tra gli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento grazie alle forme di emigrazione assistita da parte dello stato federale di San Paolo che, attraverso l’immigrazione – in particolare quella italiana – intendeva risolvere il problema rappresentato dalla defezione degli schiavi afro-brasiliani a seguito dell’abolizione dello schiavismo.

Gli italiani, giunti in massa con le loro famiglie, furono avviati al difficile lavoro dei caffezais, in cui conobbero forme molto dure di sfruttamento. Con il tempo, molti si emanciparono dalle nuove schiavitù dei fazendeiros e si iscrissero ai “nuclei colonial” con i quali si intendeva porre a reddito larghe estensioni di macchia e di bosco non coltivati. Una parte di questi coloni, successivamente, passò in città (e in particolare a San Paolo) dove contribuirono fortemente alla industrializzazione e alla nascita della metropoli.

In Brasile l’accoglienza e gli Uffici di collocamento che si occupavano degli immigrati a S.Paolo e Santos erano peggio organizzati a quelli degli Stati Uniti, soprattutto l’aspetto igienico sanitario in queste “Hospedarias” lasciava a desiderare: erano piene all’inverosimile e scoppiavano epidemie di ogni genere. Nella baia di Rio la febbre gialla, il vaiolo e la peste decimarono gli immigrati, tanto che nel solo 1890 vi morirono 428 minori. (Rapporto consolare di C. Bertola, 1892)

Le testimonianze:

Due foto inviate da Angelo Giuseppe Figurelli, che mi ha contattato attraverso internet.

- Nella prima, del 1885, appaiono Francesco Figurelli, la moglie Maria, sua suocera e i loro figli: Celina(16-07-1881) e Alcida(06-08-1884)).

- L’albero genealogico di Angelo Giuseppe Figurelli

- La foto di Angelo Giuseppe Figurelli

 Video 26

Aurelio Quaranta è nato nel 1945: figlio di Lorenzo e Maria Araimo e nipote di zia Vitella, una delle prime a gestire, a Santomenna, un negozio di alimentari e diversi.

Il nonno Aurelio, dopo aver combattuto nella prima e seconda guerra mondiale, emigrò in Brasile assieme a suo fratello Vincenzo, per raggiungere il papà (Aurelio, bisnonno dell’intervistato) che li aveva preceduti nei primi anni trenta.

Nel ‘50, a soli 5 anni, Aurelio partì per il Brasile. A Napoli, accompagnato da tutti i familiari, prese una nave che “liberava tanto fumo nero”.

Dopo un mese di viaggio arrivò a Santos, dove venne accolto dallo zio Alfonso Quaranta, che gestiva un avviato negozio di scarpe ortopediche.

Mentre il papà Lorenzo lavorava nel trasporto pubblico, Aurelio frequentò le prime classi di scuole brasiliane. Le difficoltà linguistiche iniziali furono superate ben presto: non sapeva il piccolo Aurelio che le stesse difficoltà dovette riaffrontarle a Santomenna dove tornò dopo tre/quattro anni.



 L’emigrazione in Venezuela è relativamente più recente rispetto a quella negli altri paesi del Sudamerica e fu piuttosto consistente nei primi anni cinquanta.

Alla fine della Seconda guerra mondiale e l'inizio degli anni settanta, pare siano immigrati in Venezuela oltre 250.000 italiani. Tale corrente migratoria, che raggiunse le sue punte più alte negli anni 1949 – 1960, successivamente diminuì drasticamente, per convertirsi in un fenomeno assolutamente marginale nei decenni successivi.

In questo periodo, a parte gli emigranti in cerca di lavoro, ci furono anche parecchi nostalgici “fascisti” che andarono là per cercare di esportare la loro ideologia, in ciò illusi dai regimi militari o pseudo tali che allora vigevano in Sud America.

Quando Marcos Pérez Jiménez, appartenente alla giunta militare, ascese al potere nel 1948 concentrò nelle sue mani tutti i poteri divenendo dittatore e, convinto che l'immigrazione europea potesse essere determinante per lo sviluppo del Paese, la favorì in ogni modo. Permise l'ingresso di circa un milione di stranieri (tra di essi circa 300 mila italiani, che attualmente costituiscono la seconda più importante comunità straniera dopo quella spagnola).

 A parte questa considerazione, credo che i sammennesi siano emigrati in Venezuela soprattutto attratti dalla sua capacità economica, infatti fino al 1980 gli artigiani italiani che arrivavano avevano altissime possibilità di trasformarsi nel breve termine in ricchi imprenditori.

Questi "emigranti di successo", non tutti ovviamente, tornavano spesso in l’Italia in vacanza per rivedere il loro paese o motivati dalla necessità di acquisire beni che in Venezuela non trovavano.

Tra i molti sammennesi che si sono distinti per il loro successo ricordo i fratelli Di Geronimo che a Santomenna hanno dedicato quattro condomini/torri di trentasei piani, posti agli angoli di una strada centrale della capitale venezuelana.

Come sempre gli emigranti, nostalgici del proprio paese, hanno costituito delle vere e proprie comunità italiane in cui condividere tradizioni e valori.

In Venezuela, come in Argentina, vi sono alcune sezioni della Società Dante Alighieri, presso cui i figli dei nostri emigranti hanno frequentato corsi d'italiano. Profondamente legati alla nostra cultura, spesso hanno fatto frequentare scuole italiane ai loro figli tra queste il prestigioso liceo “Agostin Codazio”.

A Caracas c’è anche un Centro italo venezuelano, sorto nel ’62, per unire tutti gli italiani che decidevano di comprare le azioni e, come presidente, ha avuto anche due persone molto conosciute a Santomenna: Alfredo Buffardi e Pasquale Di Geronimo. Per affermare la loro italianità molti automobilisti fregiano la targa della loro macchina con la bandiera italiana e molte persone indossano la maglietta della nazionale di calcio.

Vedi testimonianza Audio reg. n° 3

In queste due ultime decadi il flusso migratorio si è interrotto anche perché, se prima dello scatenarsi della crisi politico-economica che ultimamente interessa anche quel Paese, la comunità italiana in Venezuela poteva essere definita fiorente, stabile, organizzata, ultimamente si assiste al fenomeno di rientro in Italia, dove agli emigranti viene riconosciuto un minimo di pensione: questa situazione ha interessato anche molti italo-argentini.

In una recente intervista Laura Buffardi, che ora vive a Santomenna, riferisce:

 “Agli emigranti di Santomenna mancava molto l’Italia. Sotto certo aspetti si sentono più italiani quelli che stanno fuori che non quelli che sono in Italia. Risentono molto della mancanza dei loro affetti oltre che delle loro abitudini, mangiavamo sempre a mezzogiorno e conservavamo gelosamente le ricette di Santomenna. La mamma mi faceva sempre “Li cauzunciegrh’” e qualche volte doveva mediare con le abitudini alimentari, marcatamente napoletane, del marito. “

Anch’io ricordo di aver mangiato in Venezuela, a casa di Emilia Chiara (moglie di Pasquale Carbutti), un ragù che negli odori e nei sapori mi ricordava quello che una volta (anni sessanta) facevano a Santomenna e il cui profumo si spandeva lungo le strade.

Lungo potrebbe essere l’elenco dei sammennesi che hanno dato un buon contributo alla crescita del Venezuela.

Mi si perdoni se ricordo per primo mio zio Francesco Di Geronimo e i fratelli Michele e Vincenzo Ciliberti, poi i fratelli Manziano, tra cui Vito, quindi Zambella, i Cucolo, i Chiara e tanti altri ancora.

Significativa è la testimonianza audio di Luigi Piserchia (lu furnar’) che nella sua lunga intervista mi ha raccontato la sua esperienza di emigrato.


L’esperienza e il contributo di Luigi Piserchia

Video 18

Luigi è partito da Napoli l'11 agosto del ‘58 all'età di 20 anni. Dopo una navigazione di 16 gg. arrivò a Caracas e quindi a Barquisimeto, ovviamente dopo essersi sottoposto ad un'accuratissima visita, tre mesi prima a Roma, da parte di una Commissione medica.

Luigi partì grazie ad un accordo che l'Italia aveva fatto con il Venezuela. Il Generale che allora comandava in Venezuela voleva a tutti i costi favorire l'emigrazione di europei ed italiani, in particolare.


Video 19

Luigi che da giovanissimo aveva seguito un corso per parrucchieri a Campagna (insolito per quei tempi), era ormai un bravo parrucchiere e lavorava principalmente sulle donne in procinto di partire: sì, evidentemente erano proprie tante (nota autore). Sebbene a Santomenna avesse incominciato qualche lavoretto, partì per il Venezuela con grande spirito di avventura e animato da tanta curiosità.

Aveva scelto il Venezuela anche per ricongiungersi al papà che era partito nel ‘50 e al fratello Gerardo partito nel ‘52. Successivamente Luigi fu raggiunto dal fratello Pasquale (altro esempio di catena migratoria).

Non ebbe particolari difficoltà nel trovare lavoro in quanto aveva un buon mestiere che e allora costituiva un privilegio.

Luigi era contento perché il suo sogno stava per realizzarsi. Viaggiò con la M.n. Irpinia dopo aver avuto la possibilità di vedere suo fratello Pasquale che, da Casale Monferrato dov'era militare, si era sobbarcato un lungo viaggio a Genova per poterlo salutare.

A Barquisimeto trovò tanti altri italiani e riuscì ad aprire e gestire un bel Salone da parrucchiere per uomo e donna.

Il primo rientro Luigi, che è rimasto sammennese nel cuore ma riconoscente al Venezuela per quello che gli ha dato, l'ha fatto nel ‘68: dopo 10 anni. Senza rimpianti, tornò in Venezuela volentieri pur rimanendo legato a Santomenna che ultimamente ha trovato molto migliorato e, anche per questo motivo,  quasi ogni anno ritorna.


Video 21

Luigi Piserchia parla degli italiani che sono stati in Venezuela, dove tutti hanno progredito e si sono fatti onore nel loro piccolo.

Ci sono state delle eccellenze fra i costruttori, ma non tutti potevano permettersi di fare questo mestiere.

Forte è il legame rimasto con l'Italia da parte di tutti  e ora anche dagli emigranti di seconda generazione.


Video 42

Nel 1956 Antonio Piserchia si trasferì in Venezuela dove ha fatto lavori diversi.

All’arrivo, come tanti altri Sammennesi, era ospite di una baracca messa a disposizione da Vito Di Geronimo (in località “al Marchese” zona Boleita) dove, tra gli altri, si trovavano Andrea Carbutti e Francesco la Corva.

Si lavorava alla giornata trovando il lavoro con il “voce passa voce” (passaparola).

Alla domenica si trovavano a Boleita: zona d’incontro dei sammennesi che volevano giocare a bocce e/o a carte.

Dopo 8 anni di Venezuela e 19/20 anni in Canada, il cittadino del mondo è finito a Bologna.

“Per certi aspetti sono stato più tranquillo all’estero che non a Bologna: diversamente da quelli che sono arrivati oggi in Italia, noi abbiamo saputo fare l’emigrante. Eravamo consapevoli di essere ospiti.”

Il viaggio non fu sovvenzionato dal Venezuela così lo dovette pagare. Il viaggio, che durò 9 giorni, con la nave “Castelverde” della Costa e un mare in tempesta, fu fatto assieme a Michelino “lu segator’” che, avendo già fatto il primo rientro in Italia, nel ritorno gli fu di grande aiuto.


L’emigrazione in Australia



Gli appassionati di Alberto Sordi ricordano di sicuro, la sua interpretazione, a fianco della giovane e bella Claudia Cardinale, in "Bello, Onesto, emigrato in Australia Sposerebbe Compaesana Illibata". Era il 1971 e, allora, il movimento migratorio stava ormai perdendo di forza e di intensità. Tuttavia, una pellicola simile ben testimonia un fenomeno che tanto aveva colpito l'immaginario nazionale: se infatti non si possono paragonare ai milioni di nostri connazionali che varcarono l'Oceano per cercare fortuna nelle Americhe, anche gli italiani che, tra il secondo dopoguerra e la prima metà degli anni Settanta, decisero di imbarcarsi alla volta dell'Australia non furono pochi: pare oltre 360 mila.

Secondo il Professor O'Connor, (Docente di Italiano alla Flinders University di Adelaide) se volessimo fare una stima di quanti sono oggi gli Italo-Australiani, tra vecchi emigrati e loro discendenti, possiamo dire che, quantitativamente, fra gli Stati australiani, il Sud Australia conta la terza più vasta comunità di Italiani dopo il Victoria e il New South Wales. Il censimento australiano del 2001 segnala la presenza in Australia di 218.000 nati in Italia, di cui 25.000 residenti nel Sud Australia. Se si includono gli italiani di seconda e terza generazione, attualmente in Sud Australia il gruppo etnico italiano costituisce circa il 5% della popolazione. Ma, nei quartieri a nord est del centro di Adelaide, circa il 20% degli abitanti è di origine italiana: al primo posto i Campani e i Calabresi, che insieme costituiscono il 50% degli emigrati nati in Italia.

 Il prof. O’Connor, afferma che il governo australiano, intenzionato a popolare l'Australia tramite un programma che prevedeva di far entrare nel Paese fino a 200mila immigrati "bianchi" all'anno, non riuscendo a far affluire sufficienti cittadini britannici, avviò un programma di immigrazione diretto all'Italia.

Il Messaggero di Roma del 2 ottobre 1950 riportò un'intervista concessa al giornalista Gino De Sanctis dall'allora Ministro per l'Immigrazione, Harold Holt, il quale volle a tutti i costi far capire agli Italiani che la nuova Australia "non aveva pregiudizi razziali" e che gli Australiani non chiamavano più gli immigrati Italiani "dago" (maledetti stranieri).

La realtà, però, era molto diversa. Appena firmato l'accordo, nel 1951, tra l'Italia e l'Australia, fu dato l'ordine ai dipendenti del Dipartimento per l'Immigrazione australiana – incaricati di selezionare in Italia gli Italiani più idonei – di escludere i meridionali, giudicati troppo scuri di pelle. Per fortuna questo provvedimento ministeriale rimase in vigore solo per pochi anni.

Oggi moltissimi sono gli italiani, anche meridionali, che sono imprenditori o occupano posti di responsabilità in magistratura e ci sono scrittori che hanno dato un grosso contributo allo sviluppo della cultura e del giornalismo australiano.

Anche da Santomenna l’emigrazione verso l’Australia si verificò prevalentemente negli anni cinquanta e sessanta e io stesso fui tentato, appena diplomato, di raggiungere mia sorella Concetta.

 Fra i sammennesi in Australia, in buona parte residenti ad Adelaide o a Melbourne, ricordo i fratelli Salandra (Nicola, Salvatore, ecc.); “li Aviglianes’” e la famiglia dei “Cap’tunn’”, la famiglia Mollica (Ang’lon’) oltre a mia sorella Concetta e a mia cugina Concetta Turi.



(con particolare riferimento alla Svizzera e al Belgio)

Dagli anni ’50 le mete transoceaniche furono meno ambite, anche perché i guadagni medi di un immigrato in Europa erano superiori dal 35% al 50 % rispetto a quelli possibili in Italia. Ciò permetteva il ritorno in patria dopo pochi anni, spesso con risparmi sufficienti a costruirsi una casa (negli anni sessanta/ settanta a Santomenna c’era un brulicare di piccoli cantieri) o ad aprire una attività commerciale e/o imprenditoriale che, in molti casi, ancora oggi prosegue.

All’interno di questi flussi di popolazione, l’emigrazione italiana e sammennese ebbe tra le proprie mete principali: la Francia, la Germania, la Svizzera ed il Belgio.

Si trattò di una emigrazione a carattere “temporaneo o stagionale” e, a causa della vicinanza di questi paesi e della stagionalità, i migranti lasciavano le loro famiglie in Italia.

Accettati soltanto come Gastarbeiter (lavoratori ospiti) i lavoratori non venivano incoraggiati a stabilirsi in modo permanente: il loro impiego era temporaneo e ai loro figli non veniva garantita l’istruzione scolastica.

Ma, nonostante ciò, è risaputo che molti migranti sammennesi sono rimasti in queste nazioni per anni e i loro figli sono ormai del tutto integrati.

Svizzera


Non mi è stato difficile raccogliere testimonianze sull’emigrazione in Svizzera. Santomenna negli anni sessanta ha contribuito notevolmente ad incrementare la forza lavoro in Svizzera, paese che costituiva il miraggio, il sogno per tanti giovani. Lascio a loro raccontare questo paese a molti rimasto ancora nel cuore.

L'emigrazione in Svizzera ha contribuito notevolmente ad aiutare l'economia povera di Santomenna. Grazie alle rimesse, ai soldi frutto dei lori sacrifici, i nostri emigranti incominciarono a sistemare e, a volte, a comperare la casa a Santomenna.



Le loro testimonianze

Audio reg. n° 8

Intervista ad Angelomaria Piserchia (r z’nnarul’) nato del 1930

Ha un ricordo lucido del suo vagare in Europa: dall’Inghilterra (uno dei pochi nostri emigranti nel Regno Unito) alla Svizzera, a Berna, dove venne inviato tramite l’Ufficio Provinciale del Lavoro. Questa era una prassi non inconsueta, a testimonianza delle richieste di manodopera all’Italia che allora, come adesso, non riusciva a garantire occupazione ai propri giovani.

Video 4

Michele Calabrese da tutti conosciuto come “M’chelin’ r sarachella”. Nato nei primi anni quaranta, a 18 anni è emigrato in Svizzera. Un carissimo cugino che io ho sempre considerato come fratello maggiore: quando ero in difficoltà trovavo sempre in lui difesa e sostegno. A lui chiedevo aiuto quando avevo difficoltà a gestire e governare le bestie (pecore e vitelli) che mio padre mi affidava in attesa di poter essere macellati. “La prima volta che andai in Svizzera, dice Michelino, ebbi la fortuna di arrivare nel Canton Ticino dove si parlava l’italiano. Anch’io, alla prima uscita con un contratto da contadino, fui impegnato come boscaiolo. Il contratto era stagionale, al mio primo rientro in Italia sono dovuto partire militare per Milano. Dopo la prima esperienza in Svizzera ho lavorato anche in una fabbrica di birra a Lucerna dove ho avuto qualche difficoltà con la lingua. In Svizzera stavo volentieri soprattutto perché a fine mese arrivava lo stipendio. Dopo dodici anni in Svizzera (sino a trent’anni) rientrai e con ciò che ero riuscito a mettere da parte iniziai una piccola attività in proprio con un camioncino (Tigrotto) e riuscii anche a comprare una casa”.


Video 6

Nel 1960, a venti anni, Peppino emigrò in Svizzera. Incominciò a lavorare in una vetreria. Assieme a lui altri giovanotti: Pasquale Carbutti, Gerardo Carbutti e Gerardo De Cillis. Nella vicina Lucerna c’erano anche Antonio ed Andrea Calabrese assieme ad Umbertino Voza che lavoravano in una fabbrica di birra.

Nei primi mesi che soggiornò in Svizzera aumentò di ben 10 Kg! Ricorda i problemi con il dialetto dei locali (altro che tedesco!) ed il timore di sbagliare in quanto allora, le autorità svizzere, ti avrebbero accompagnato direttamente alla frontiera.

Dopo tre anni e mezzo rientrò in Italia ed incominciò a lavorare in proprio con un furgone “Ape”. Per quei tempi era un imprenditore.


Video 7

Anche Gerardo (Mariapalma) ha avuto un’esperienza come emigrante in Svizzera dove rimase tre/quattro anni. Con i soldi messi da parte comprò un appezzamento di terra. Era partito a venti anni e, come tutti gli altri, aveva un contratto stagionale presso qualche contadino. A Santomenna lavorava qualche giornata: allora era tanta la povertà che i biscotti si vedevano solo a S. Felice e alla festa di luglio.


Video 15

Michele Venutolo è nato a Santomenna nel 1932 e come migrante ha girato mezz'Europa: a 23 anni è scappato dal paese per sfuggire al duro lavoro della campagna.

A metà anni cinquanta partì per la Svizzera dove rimase una decina di anni, salvo una breve parentesi in Svezia (Malmoe) dove non rimase molto perché si guadagnava bene ma si spendeva molto a causa di uno stile di vita anche troppo libertino! Dopo la Svizzera si trasferì a Monaco di Baviera.

In Svizzera, come tutti, andò con un contratto iniziale presso un contadino: era la prassi.

Dopo qualche anno riuscì ad inserirsi nell'industria dove il lavoro era meno faticoso.

Non ha avuto problemi di integrazione: come altri, riferisce, che quelli che si comportavano bene non avevano mai particolari problemi.


Belgio


Significativa è stata l’esperienza di emigrazione in Belgio, destinata al lavoro in miniera ed improvvisamente terminata nel 1956, in seguito alla tragedia di Marcinelle, nella quale persero la vita anche 136 minatori italiani.

Nel 1946, il governo italiano e il governo belga strinsero accordi bilaterali che portarono all'emigrazione massiccia di italiani destinati a lavorare nelle miniere di carbone del Belgio.

Al di là delle catastrofi – Marcinelle non fu la sola - la qualità della vita di questi lavoratori era pessima, anche perché l'esposizione prolungata alle polveri di carbone porta sistematicamente allo sviluppo di malattie inguaribili.

Per tutti gli emigrati in Belgio nei primi anni cinquanta, il lavoro nelle miniere continuava ad essere quasi la condizione obbligatoria di impiego: occorrevano almeno cinque anni di permanenza nelle gallerie sottoterra prima di sperare di essere impiegati in altri settori industriali.

Nonostante ciò in quel periodo furono numerosi i disoccupati che abbandonarono l’Italia per il Belgio: in cinque anni ne arrivarono ben 20.000. L’Italia in miseria fornì le braccia al Belgio che aveva le miniere da far fruttare. L’Italia si assicurava 200 Kg di carbone al giorno per ogni lavoratore.

Gli emigranti venivano sottoposti a sistematiche e scrupolose visite mediche in entrata, ma al momento del rientro i minatori non si preoccupavano di controllare il loro stato di salute e, spesso affetti da silicosi (malattia provocata dall’inalazione continua di polvere di carbone), venivano a morire in Italia.

Ho ancora vivo il ricordo di persone, fra questi qualche parente, ritornate a Santomenna a “cambiare aria”. Data la specificità e il numero di questa comunità di “belgesi’”, tenuta sempre in grande considerazione anche dai candidati a sindaco in occasione delle votazioni, di seguito viene dedicato un approfondimento suggerito da un emigrante che a Bruxelles si è fatto onore.


Questa la testimonianza sull’emigrazione in Belgio di Rocco

Di Martino, così come sono riuscito a tradurla dal francese.

  “Non si può parlare della storia di sammennesi del Belgio, senza parlare della storia della migrazione italiana. Senza tornare al tempo in cui i Romani invasero la Gallia, troviamo una prima ondata di italiani che vivono in Belgio alla fine del 19 ° secolo. Negli anni '30 molti italiani, soprattutto del Nord, sono arrivati in Belgio per sfuggire al regime fascista: che io sappia tra questi, non c'erano sammennesi.

Quindi la stragrande maggioranza è arrivata dopo il 1946, quando il Belgio e l'Italia hanno firmato un accordo che prevedeva lo scambio di manodopera contro carbone. Decine di migliaia di italiani sono venuti a tentare la fortuna ma, la maggior parte di essi, non sapeva nemmeno cosa avrebbe trovato. É in quel periodo che molti Sammennesi sono arrivati. Alcuni hanno anche lavorato con il “legno du Cazier” a Marcinelle.

Mio nonno materno, Felice Di Geronimo detto “Jacuvella”, ha lavorato lì sette mesi nel 1951. Aveva portato con sé anche i guanti in pelle che aveva usato per tagliare il grano con un falcetto (r manuegrh’). Alcuni emigranti sono tornati, altri sono rimasti con le loro famiglie e dopo di loro altri sammennesi sono venuti a vivere in Belgio, fino alla metà degli anni '70. Questa terza ondata ha lavorato soprattutto nel settore industriale e delle costruzioni.

A volte dimentichiamo che una parte del "miracolo economico italiano" degli anni 50/60 è dovuto a quelle persone che hanno lavorato in condizioni infernali. Oltre al fatto che l'Italia ha ricevuto il carbone in cambio del loro lavoro, questi uomini hanno anche inviato buona parte dei loro salari alle loro famiglie e, anche, hanno investito nel loro paese natale, la maggior parte nel settore immobiliare.”

firmato Rocco Di Martino[14]

 Riporto anche alcuni stralci di una intervista che lo scrittore italo-belga Girolamo Santocono (segnalato da Rocco) ha concesso ad un giornalista.

Oggi l’immigrazione italiana in Belgio è portata come esempio di buona integrazione ma, certamente, gli emigranti hanno pagato un prezzo elevato in termini di duro lavoro e salute, come testimoniato nel libro di Santocono “Rue des italiens”.

L’italo-belga Girolamo Santocono, emigrato in Belgio all’età di tre anni al seguito del padre minatore, già nel 1986 pubblicò il suo primo romanzo “Rue des italiens” (Edizioni Gorée), libro che è arrivato in Italia solo dopo venti anni.

Nel suo libro “racconta le esperienze di uomini e donne che, subito dopo la guerra, sono stati letteralmente ceduti dall`Italia al governo belga in cambio di qualche tonnellata di carbone. Nostalgia, sogni, speranze contrappuntano le loro esistenze, mentre intanto, giorno dopo giorno, il Paese dove sognano di tornare cambia e si trasforma in un luogo sconosciuto. Più sconosciuto, forse, di quello che li accolse”.

“Oggi, come allora, l’emigrazione inizia sempre con un viaggio. Ora sono le carrette del mare che scaricano sulle coste del Sud centinaia di disperati alla ricerca di un lavoro, di un futuro, forse di un ritorno. Ieri erano gli italiani a riempire treni per compiere il viaggio che li avrebbe portati nei paesi del Nord Europa in cerca di lavoro, di un futuro per sé e per i figli, nella speranza di un ritorno”. “Mi sono messo a scrivere”, dice Santonoco nella sua intervista, “anche per raccontare come viveva questa gente, e per ricordare come duemila persone venissero alloggiate in un ex campo di prigionia per tedeschi risalente alla seconda guerra mondiale, senza acqua, senza gabinetti, con riscaldamenti di fortuna, praticamente senza nulla”. ”Ho scritto il libro per dare una memoria storica a quelli che sono nati dopo di me e per dire al Belgio: "Non dimenticate che nella vostra identità di popolo entra la presenza di tutti gli immigrati morti in questa terra". Non solo degli immigrati italiani, ma dei turchi, dei marocchini, degli spagnoli, dei greci. Non si può annullare, non si può passare sotto silenzio il loro apporto.
Quando sono arrivati gli italiani - 250 mila in tre/quattro anni - i problemi ci sono stati. I belgi non ci affittavano la casa, perché ci consideravano non integrabili. E poi, parlavano indistintamente di "italiani". Per loro erano tutti italiani. Il bello era che questi italiani avevano culture completamente diverse e fra loro sconosciute. Di fatto, la prima cosa che gli "italiani" hanno scoperto non sono stati i belgi, ma loro stessi. E fra di loro i rapporti erano più complicati che con i belgi, soprattutto nei primi anni di immigrazione”.
”Il problema del razzismo, della xenofobia,” secondo Santocono, “di fatto non esisteva perché gli italiani erano in tanti e loro avevano bisogno di persone che lavorassero: avevano bisogno di noi e, diciamo, che ci siamo imposti. C'è anche da dire che i valloni credo siano uno dei popoli più accoglienti al mondo. I veri problemi li si aveva con lo stato belga che era xenofobo”.
”Il mio romanzo serve anche a dire state attenti a non fare agli altri quanto hanno fatto a noi. Se deve servire a qualcosa ecco, serve a questo. E anche a spiegare al mondo che la tolleranza, l'accettare gli altri non è soltanto una bella idea morale: è sopravvivenza. Bisogna accettare che il mondo cambi e che il mio vicino appartenga a un'altra etnia e parli un'altra lingua.

Dico questo perché la storia dell'immigrazione passa sempre attraverso le stesse maglie. Ricordo benissimo, come fosse oggi, quello che è stato fatto dai belgi agli italiani, e sono le stesse cose che gli italiani oggi fanno ai marocchini. I belgi consideravano gli italiani “inintegrabili” nella loro società, perché ferventi cattolici. Dicevano che i siciliani tenessero segregate le mogli, che le donne uscissero solo col fazzoletto in testa. Erano considerati dei barbari perché a Pasqua sgozzavano l'agnello. Che fine hanno fatto queste persone partite in cerca di un futuro, che non fosse quello di stenti, offerto dalle nostre terre? Molti sono rimasti in Vallonia, portandosi dietro la famiglia, facendo nascere o crescendo lì i propri figli. Ma per noi è come non fossero mai esistiti, cancellati dal ricordo se non proprio dalle nostre anagrafi. Probabilmente perché sono un ricordo scomodo di quello che eravamo (emigranti) e di quanto i governi hanno sempre organizzato alle spalle dei cittadini.”

 Santonoco ha voluto raccontare la vita di questi immigrati italiani, dare la visione di una realtà che era dura, se non tragica, e non nasconde nulla della loro sofferenza - dal taglio volontario delle falangi delle dita per avere qualche giorno di riposo in più, alla tragedia di Marcinelle, dalle morti annunciate dalle sirene delle ambulanze, alle crisi di coscienza di chi pensava di aver perso la propria dignità di uomo lavorando come una bestia in miniera o decideva dì non tornare più a casa alla scadenza del contratto quinquennale, perché li almeno c'era lavoro. Santocono, con il suo libro, ha reso omaggio a questa gente, “che aveva il sole nella testa e che arrivava in Belgio sotto un cielo coperto dal nero del carbone, sotto la pioggia".


Video 14

Giuseppe Di Geronimo, un mio coetaneo oltre che compagno di scuola è emigrato in Belgio nel 1965 e ha lavorato come panettiere. Partì per non rimanere a zappare a Santomenna. Aveva solo 18 anni quando è uscito la prima volta da Santomenna: la prima uscita ed esperienza la fece in Toscana come pizzaiolo. Anche lui ha Santomenna nel cuore e vi ritorna spesso, almeno una volta all’anno. Però non vi ritornerebbe a vivere da pensionato perché la mentalità e le situazioni a Santomenna sono cambiate. Insomma, pure per lui era quasi meglio quando si stava peggio.



[1]  Oltre che da Wikipedia alcune notizie sono state ricavate dai seguenti siti visitati
 nel settembre 2012
www.brigantaggio.net/brigantaggio/Storia/Meridionale/Q13.htm
http://cronologia.leonardo.it/emitot3.htm; www.emigrati.it/Emigrazione/Esodo.asp
http://cronologia.leonardo.it/emitot2.htm; www.roccadevandro.net/emigrazione_usa.htm
www.instoria.it/home/emigrazione italiana.htm
[2] Il fenomeno migratorio post-unitario assunse una rilevanza sociale e politica e la società italiana ed i suoi rappresentanti politici cominciarono ad interrogarsi sul fenomeno e a domandarsi cosa fare. La prima reazione fu di riprovazione: gli emigranti disertavano il processo di formazione nazionale e mettevano in pericolo la nazione. Tuttavia presto si cominciarono a vedere i possibili vantaggi di questo esodo: rimesse economiche, pacificazione sociale e persino penetrazioni in mercati che prima sembravano irraggiungibile. (Mostra sull’Emigrazione all’altare della Patria, Roma 2012)
[3] Il brigantaggio imperversò per anni fino al 1864 nei territori della Basilicata e in quelli a confine. Briganti come Carmine Crocco, Schiavone, Josè Bories, Minco Manco, Tortora, Volonnino erano padroni di queste terre contrastati dalla sola Guardia Nazionale e talvolta dalle truppe piemontesi che in molti casi compirono vere e proprie stragi. Molto ci sarebbe da scrivere sul terrore che imperversò dopo l’Unita d’Italia e che determinò ancor più miseria e disagi. (Pietro Di Majo)
[4] “la speranza non è di questa terra. L’altro mondo è l’America, che ha per i contadini una doppia natura. É terra dove si va a lavorare, dove si suda e si fatica, dove il poco danaro è risparmiato con mille stenti e privazioni, dove qualche volta si muore e nessuno più si ricorda; ma nello stesso tempo è, senza contraddizioni, il paradiso, la terra promessa del regno” (Levi- Cristo si è fermato ad Eboli)
[5] http://www.galatamuseodelmare.it/cms/sezione%20emigrazione-189.html da cui ho ripreso buona parte del testo. Il titolo è “MeM Memorie e Migrazioni”.
[6] “Da per tutto sono sparsi commessi che fiutano intorno la miseria e il malcontento e offrono il biglietto di imbarco a quei disgraziati che vogliono abbandonare la patria, o li eccitano a vendere la casa, le masserizie e la terra, per procurarsi il denaro per il viaggio.” (Mostra sull’Emigrazione all’altare della Patria, Roma 2012)
[7] Le agenzie di emigrazioni erano imprese private con sede solitamente nelle città costiere, porti d’imbarco per le Americhe.
[8]  Il viaggio via mare verso le Americhe non era una crociera per emigranti. In genere venivano stivati in terza classe in condizioni pietose prive di igiene. In fondo non si trattava che di “tonnellata umana”, così come veniva chiamata il carico umano degli emigranti che “accovacciati” sulla coperta, presso le scale, col piatto tra le gambe e il pezzo di pane fra i piedi, mangiavano il loro pasto come i poverelli alle porte dei conventi.” (T. Rosati, ispettore navi emigranti)
[9]  Le donne sole, anche se fidanzate, non potevano essere ammesse e dovevano celebrare il matrimonio a Ellis Island. I minorenni soli dovevano trovare i garanti e gli orfani dovevano essere adottati altrimenti venivano respinti. (Mostra sull’Emigrazione all’altare della Patria, Roma 2012)
[10] Il sito è:  http://www.ellisisland.org/
[11]  alcune notizie ricavate da Wikipedia
[12] É figlio di Roxanne e di Frank Charles Carlucci I, nato a Santomenna, il 7 aprile 1862, a sua volta figlio di Carlo Carlucci e di Grazia Napoliello: nipote di Giovanni Angelo Carlucci.
[13] I rapporti di Suzan Mazur sono apparsi sul  Financial Times, Economist, Forbes, Newsday, Philadelphia. Sito: http://www.scoop.co.nz/stories/HL0506/S00418
[14] Nipote, da parte paterna, di Rocco Di Martino detto anche “puzifort’” in quanto, si racconta, era molto svelto a mietere in quanto aveva un “polso forte”.